Linea d'ombra - anno X - n. 71 - maggio 1992

1 O VISTA DALLA LUNA Giancarlo Azzano Giancarlo Azzano (Passariano, Udine 1953) è insegnante presso il liceo scientifico A. Righi di Bologna; fa parte di un'équipe dell'Ussl 27 di Bologna coordinata da Giacomo Stella che sta svolgendo uno studio sullo sviluppo cognitivo nei bambini ciechi. Toccare le immagini Le peripezie cognitive dei ciechi La luce non sempre è l'opposto del buio Aristotele nella Metafisica afferma: "Tutti gli uomini sono protesi per natura alla conoscenza; ne è un segno evidente la gioia che essi provano per le sensazioni, giacché queste sono amate di per sé; e più di tutte le altre è amata quella che si esercita mediante gli occhi. Infatti noi preferiamo per così dire la vista a tutte le altre sensazioni perché essa più di ogni altra ci fa acquistare conoscenza e ci presenta con immediatezza una molteplicità di differenze". Questo asserto fa ancora parte di una concezione largamente condivisa dalla filosofia del senso comune, anche se non sempre in modo cosciente. L'occhio è l'organo della conoscenza e della gioia, e la cecità necessariamente si traduce nel suo opposto: infelicità, perché è non essere. Così pensavo anch'io quando a 14 anni sono diventato cieco e mi pareva che la vita mi sfuggisse dalle mani. Allora mi sono sentito come sprofondato in un mondo onirico, le cose mi parevano imprendibili e inconsistenti; mi sentivo come una nave che sente scivolare via l'acqua sotto la chiglia senza lasciar tracce nel mare dell'esperienza; il mondo percettivo dei sensi residui era un universo di sensazioni informi che il mio linguaggio non era in grado di plasmare. Non camminavo più nel regno stabile delle immagini; mi trovavo ora in un cerchio di percezioni che si ponevano alla mia sensibilità con un carattere del tutto nuovo: l'udito, il tatto, l'olfatto, il gusto mi presentavano una gamma di stimoli che, anche se combinati, non riuscivano, così mi pareva allora, a darmi la complessità dell'oggetto percepito o l'insieme organico delle situazioni in cui quell'oggetto era collocato; mi sembrava fosse impossibile allora sostituire con gli altri sensi la potenza di uno sguardo che in un solo istante è in grado di cogliere e ordinare un ampio orizzonte di colori e forme in un variopinto intreccio di rappresentazioni. Sentivo il calore del sole sul volto, le voci che gridavano nella strada, sotto i piedi sentivo le increspature del selciato, un'automobile si allontanava: queste percezioni non riuscivo a ricondurle più a una rappresentazione unitaria. Questa reazione di sman-imento cognitivo era accompagnata da una crisi d'identità; l'ambiente attorno a me non era più lo stesso e neppure io ero più lo stesso: percepivo il mondo come sequenze di stimoli irrelati e minacciosi che non si lasciavano integrare in un cosmo familiare; l'ambiente non era più lo specchio garante del mio pensare e del mio agire. Questa mia esperienza è l'esperienza, seppure più limitata, che fanno i vedenti quando si trovano improvvisamente al buio oppure chiudono gli occhi per immaginare la vita del cieco; ovviamente il sentimento non può essere che quello dell'orrore. Ma, come Shakespeare fa dire a un eroe della sua tragedia Macbeth: "Le paure immaginarie sono più tremende di quelle reali". Oliver Sacks nel suo libro Vedere voci asserisce che "i sordi non si lamentano del silenzio così come i ciechi non si lamentano del buio". Il buio infatti può essere definito solo in opposizione alla luce, ma per chi non percepisce la luce il buio non esiste. Chi non vede utilizza una struttura cognitiva diversa dal vedente, la luce per lui ha un valore semantico, non denotativo, non referenziale. · Come i vedenti parlano della struttura dell' atomo pur senza averne mai avuto esperienza diretta, utilizzando il modello del sistema solare che neppure gli corrisponde, così i ciechi rileggono e costruiscono il proprio mondo linguistico-percettivo e i propri contenuti di pensiero. Il risultato di questo percorso cognitivo non è un mondo concettuale a parte rispetto a quello del vedente. I concetti di spazio, tempo, peso, movimento, alto, basso, ecc. hanno il medesimo valore per il cieco e per il , vedente; la differenza sta nel diverso approccio cognitivo all'ambiente; usando una terminologia piagetiana possiamo dire che il problema è di definire, in questo caso, il modello di "adattamento" all'ambiente che realizza un cieco. Così possiamo ipotizzare che la cecità non comporta una frammentazione delle rappresentazioni, bensì propone una diversa modalità rappresentativa. Alla ricerca di una metafora rovesciata La cultura occidentale ha considerato sempre la vista come lo strumento della conoscenza: Platone stabilisce un'uguaglianza tra verità e luce; nel Vangelo di Giovanni si delinea la stessa opposizione luce-tenebre; la filosofia medioevale non abbandonerà questa impostazione. Anche per la scienza moderna vale lo stesso discorso; infatti per Galileo, Cartesio ecc. è scientifico solo ciò che l'occhio quantifica. E allora perché un cieco come Omero (non importa se storicamente reale o no) è considerato il padre della cultura greca e l'archetipo, possiamo aggiungere, del pensiero occiden-

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