Linea d'ombra - anno X - n. 71 - maggio 1992

8 VISTA DALLA LUNA i :s Angelo M. Fanucci Capodarco, veni' anni Don Angelo M. Fanucci, membro del Movimento di Capodarco, è fondatore e direttore della comunità Centro Lavoro Cultura di S. Girolamo a Gubbio (Perugia), oltre che parroco della parrocchia di Padule, nello stesso comune. "La condivisione è alla base della nostra esperienza e vuole essere segno visibile per i giovani, le donne e gli uomini della periferia delle nostre metropoli che non si rassegnano ai mali e cercano di vivere con dignità la propria cittadinanza sociale'. Il Movimento di Capodarco ha i suoi uffici di coordinamento a Roma, via Lungro 3. Si occupa di handicap e di molte forme di emarginazione. A Roma gestisce un Centro di riabilitazione, uno di formazione professionale, uno di integrazione sociale, dieci gruppi famiglia e sei cooperative professionali, dislocati in varie zone periferiche e a Grottaferrata. Fanno parte del Movimento altre dodici Comunità locali, a Tolmezzo, Udine, Arzignano, Perugia, Ponte S. Giovanni, Gubbio, Fermo, Capodarco di Fermo, Lamezia Terme, Palermo, Oristano e a Riobamba nell'Ecuador. Sulle attività, le idee e le funzioni del Movimento torneremo con interviste e materiali nei prossimi, numeri di "Linea d'ombra". Scrivo da una delle Comunità di Capodarco, quella insediatasi a Gubbio (Perugia) con il nome di Centro Lavoro Cultura. Una sensazione strana. Come quando la classica "febbricola" ti si insinua nelle ossa e le riscalda fastidiosamente. La sensazione d'essere dei sopravvissuti, anacronistici, retorici. È la sera del 5 aprile e non sono andato a votare (il che, in un prete, davvero non istà bene), né so francamente se domattina troverò tempo e voglia per entrare nel "mio" seggio. Alla Tv impazza Umbriafiction, e Pippo, Gran Ciambellano della Nullità, distribuisce patenti di umanità con lo slancio affettuoso che il suo contratto miliardario prevede. Pippo, sei davvero tu l'eroe del nostro tempo! A Capodarco, e nelle comunità di accoglienza tutte, continuiamo a parlare di "comunità" dopo i fasti dell'individualismo trionfante. Che si tratti soltanto di umanissimo bisogno di sopravvivere a se stessi? Di impossibilità di darti un volto diverso 1quando, praticando e predicando comunità nel deserto gremito di buone maniere, i capelli ti si sono imbiancati, e i riflessi incrinati di obbligatoria saggezza? Una comunità di accoglienza è innanzitutto un ideale di vita. Non come la comunità terapeutica, dove la permanenza sotto lo stesso tetto è interamente funzionale al reinserimento nei circuiti della vita normale, e mamme-papà-sorelle aspettano con ansia che (''ove possibile") normalità e banalità tomino ancora una volta a coincidere. La nascita delle comunità terapeutiche e la loro rapida fortuna, legata alla drammatica dimensione del problema droga (soprattutto dopo che la droga ha cominciato a interessare anche la borghesia medio-alta), ha stravolto i termini della proposta comunitaria. La comunità è diventata l'alternativa al servizio pubblico contro la tossicodipendenza: "funzionale a". Non era nata così, "la" comunità; era nata come un progetto di vita in cui la solidarietà si facesse esistenza quotidiana, e da piacevole complemento diventasse struttura portante della comune sopravvivenza. La "solidarietà del cesso", un anno luce più avanti della "solidarietà del cuore". Così è nata anche la Comunità di Capodarco, nel fervore intenso e nobile del sogno utopico degli anni Sessanta. Capodarco è un paesino àl confine fra la provincia di Macerata e la provincia di Ascoli Piceno, proprio all'inizio di quest'ultima. La gente parla uno slang da mercati generali, impregnato dell' urgenza di concludere sempre e comunque un affare. Lì si insediò un gruppo di invalidi, tutti al 100%, chiamati a raccolta da un prete ovviamente sospetto ai suoi "Superiori", don Franco Monterubbianesi. Era il Natale del 1966. Era successo che, durante l'estate di quello stesso anno, il prete era "scoppiato". Durante un pellegrinaggio a Lourdes, una di quelle colossali manifestazioni che le Chiese locali affidano a un'apposita organizzazione, l'Uni talsi, Unione nazionale italiana trasporto ammalati a Lourdes e Santuari italiani, veri fritti misti di fededisponibilità e banalità-alienazione. Un vescovo stava arringando gli oltre 1.000 giovani ammalati presenti: "Voi siete l'immagine di Cristo sofferente", e probabilmente non lo sfiorava nemmeno il sospetto che quella proclamazione era indegna dei paramenti che indossava e della concezione della vita che istituzionalmente doveva esprimere. "Valorizzare la sofferenza" ha senso solo come capitolo singolo di un testo assai più vasto, intitolato "Valorizzare la vita". "Professionalizzare la sofferenza" non ha senso alcuno, anche per le facili incursioni che la scienza statistica potrebbe porre in essere nel varco aperto da quelle parole; non è difficile ipotizzare che dopodomani qualcuno, sulla scorta di quelle parole, si senta autorizzato a offrirne la traduzione a un ventenne in carrozzella in questi termini: "Tu vedi di soffrire la parte nostra, noi vivremo anche la tua parte, il quadro statistico riassuntivo darà ragione a te e a noi". "Siamo tutti l'immagine di Cristo Risorto!" gridò il prete scoppiato, e sul treno che riportava tutti in Italia (il "treno bianco") fece circolare un appello, ciclostilato. Lo raccolsero in venti, tutti giovani e gravissimi. Diceva: andiamo a vivere insieme, dimostreremo al mondo, a chi ci ignora, a chi ci seppellisce sotto montagne di pietismo, che la pretesa di essere persone anche noi ha precisi riscontri di vita. Andarono a vivere in una fatiscente villa padronale immersa nel verde, si organizzarono, lavorarono come negri, attirarono l'attenzione dei giovani, crebbero di numero e di energie, spostarono rapidamente l'epicentro della loro analisi e

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