UNA CASA LUNGO IL CAMMINO Giuseppe Mazzagli'a Giuseppe Mazzaglia (Catania 1926) ha scritto La donna selvatica (Felrinelli, 1961), Ricordo di Anna Paola Spadoni (Rizzoli 1969), La pietra di Melantino (Rizzo li 1976). Ha collaborato a "Nuovi Argomenti", "Tempo presente", "Il punto", "Paragoni", "Botteghe oscure", "Sinistra Europea", "L'Europeo". Sta lavorando a una nuova opera dal titolo Principi generali. Sin dai primissimi numeri della nostra rivista, consci del suo valore e della ingiusta disattenzione che gli riserva l'intellighenzia italiana, gli abbiamo chiesto un racconto, che finalmente è arrivato. Calcolare o, peggio, essere assolutamente certi di arrivare alla Croce di Spaddali per chi prenda all'avventura uno qualsiasi dei viottoli di dritta che partono dai sentieri della Piana di Singaleri, è cosa di cui ci si deve pochissimo fidare; il meglio che possa capitare - accadde a me in quella notte di aprile - è di sperdersi e d'essere tormentati dalla sete, molto al di qua delle paludi nella zona australe intorno alla Fossa della Cugna. Da dove mi trovavo, il modo più sbrigativo di arrivare alla casupola era quello di scavalcare la bassa palizzata e andare diritto traverso il campo selvatico. Sono imbarazzato da gambe lunghe. Il plenilunio splendeva ingiallendo le pietre. Doveva essere vicina lamezzanotte.Tutt'attorno nella pianura non cresceva erba né altro che sterpi e qua e là corde vegetali confuse tra le pietre e la terra secca. Chiazze di ombre lontane: i piccoli boschi dell'orizzonte, raggruppamenti di altissimi tronchi chiomati di ruggine. Da vicino, si vedeva che la costruzione, fatta con grandi pietre, era alquanto tozza, pesante e senza garbo. Una porta di legno grosso, a un solo battente; tavole trasversali la rinforzavano ali' esterno, talché vano sarebbe stato battere con le dita su quella porta. Picchiai coi pugni sul legno aspro, ma non ottenni risposta. Per qualche attimo, trattenni l'orecchio sulle tavole. Non percepii voci né un rumore qualunque. Irritato, più che convinto della utilità dello sforzo, sferrai un gran calcio a quell'ammasso di vecchie assi inchiodate. Ne venne un rantolo terrificante, e tale che ne rimasi sconvolto. Assai più quello era stato il grido ultimo di un bestione che muore, che lo stridore di una porta che si apre. Spaventato feci un balzo di fianco addossandomi al muro. La porta si era aperta alquanto e niente .sipoteva vedere dell'interno che non fossero tenebre impenetrabili. La porta si avviò a richiudersi lentissimamente, poco a poco èd emettendo volta a volta grugniti di tal forza che io credo dilagassero per largo tratto nella pianura. Finalmente la porta cessò di muoversi e di grugnire, e però rimase aperta un poco. Mi sembrò di intravedere qualcosa muoversi come strisciando a terra nell'interno della casupola, proprio giù e vicinissimo alla porta socchiusa. Infine qualcosa venne fuori con una certa violenza. Parve una grossa lingua verde, cui la luna, alta nel cielo, diede subito una strana ombra frastagliata. Data la straordinaria luce di quella notte, non ci volle granché per comprendere che si trattava di un qualche ramo d'albero, sbucato chissà come e ad opera di chissà quale mai stravagante abitante della spelonca. Nondimeno, quando con accresciuto sospetto mi avvicinai, dovetti accorgermi che un ramo quella cosa non era; piuttosto era una pianta. Per di più, ora che la osservavo bene, era una delle poche piante a me note; anzi ripeteva le forme 64 di un'erba comune; l'ortica. Dalla quale quella pianta differiva esclusivamente nelle proporzioni, impensabili per un'ortica. Da ben vicino, avresti detto che niente altro quella fosse che un'ortica gigante, così quale si atteggiava e con le larghe foglie dentate e il fusto tenace. Mi sembrò che, soprattutto, quella pianta tradisse una grande vitalità. Non si era più mossa, rimasta piegata verso terra e - in quel tratto che era venuto fuori - illuminata da una luce intensa sulle grandi foglie. Dallo spiraglio, niente si riusciva a distinguere nella oscurità dell'interno; senonché una dolce sensazione di fresco mi carezzò il volto. La tenebra fitta, cui nulla si poteva togliere che non fosse un'ortica gigantesca, mi attirava ora con la invitante frescura. Non conoscevo quella parte avanzata dei campi seivaggi. Maledizione, avevo corso da folle. La luna inondava di luce le zolle della terra cretacea. Mi avviai verso la palizzata; era malferma e sgangherata, sicché mi fu facile provvedermi di un palo. Tornai alla porta e mi trattenni qualche attimo in ascolto. Nessun rumore dentro la casupola né fuori sulla pianura. Tranne il mio respiro, niente turbava il silenzio luminosissimo della notte. Piano, avvicinai una estremità del palo alla porta, in un punto che una tavola sovrapposta alle altre permetteva un appoggio solido. Quando ebbi ben sistemato il palo, spinsi con quanto più vigore potei. Mi aspettavo che la porta si spalanca~se, invece andò aprendosi lentamente e opponendo una forza caparbia e, grado a grado, crescente. E tal fragore ne veniva che esplodeva nel silenzio, quasi che sventrassi il mondo. Mi resi conto di che impediva alla porta di aprirsi sui cardini arrugginiti. Intravedevo; tutto l'interno del casolare era invaso da una eccedente angosciosa vegetazione. Lì chiuse, ortiche gigantesche - una quantità stragrande - vivevano prosperose e ammassate, robuste ed esuberanti come alberelli. Seguitavo a spingere e, in mezzo allo stridore riuscii a percepire il rumoreggiare della fresca verdura rimossa e, più vicino, intravidi l'ondeggiare minaccioso delle foglie ampie. Ora anche sentivo l'odore acre delle piante ferite o maciullate sotto la porta. Proveniva dall'interno tenebroso una fresca umidità ampia e non discontinua, sicché rabbrividivo. Ora un'ombra più spessa come un corpo oscuro veniva distinguendosi a poco a poco sulla sinistra. Dapprincipio, impegnato a trattenere la porta, non avevo dato a quell'ombra alcuna importanza; al contrario adesso, a mano a mano che prendeva una consistenza, l'ombra nera - un grosso fagotto in qualche punto rilucente - incominciò a darmi pensiero. Veramente altre cose incominciavo a distinguere nell'interno. Per esempio un forno rustico immediatamente a destra; degli oggetti, forse utensili, appuntati lungo il muro; altro: qualcosa come un grande armadio appoggiato alla parete di fondo. Quell'ombra, invece, restava tuttora inconprensibile. Mutava e si sarebbe detto che non dovesse mai assumere una pressoché chiara forma. Tuttavia imprevedibilmente d'un tratto si assestò in un ordine determinato e non ebbi alcun dubbio. Svuotato d'un colpo di ogni forza, non potei più sostenere il gravoso carico della spinta. A quel punto la portaccia prese a chiudersi e a rintronare clamorosamente.
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