Linea d'ombra - anno X - n. 71 - maggio 1992

STORIE/ORTESE anche la porta dei vicini era aperta, veni va un rumore di voci giovani: i ragazzi del maresciallo Menna si preparavano a recarsi a Posillipo con le merende. "Non prendete sole, mi raccomando!" "Questo è il tuo costume!" "No, è il mio!" Una radio, dietro la parete, cominciò a cantare: Era de maggio, e le cadeano 'nzino · a schiocche a schiocche le cerase rosse ... - Dovreste far presto ... - diceva intanto il malato, con una certa ansietà in tutto il viso, - stanno per andare via ... - Chi?- voleva chiedere Olga; poi capì cos'era venuto in mente al vecchio: salire le scale di casa Pezza per andare a fare gli auguri alla sposa. Si disse che non sarebbe arrivato fino alla porta, ma per la prima volta questo pensiero non la rallegrò. Gli porse la giacca. - Vi sono obbligato ... non so come ringraziarvi, - diceva Antonio Zappulla, con quel sorriso infantile e oscuro nel volto. E andava infilandosi la giacca,.tutto agitato, sotto gli occhi inquieti e attenti della nuora. A un certo momento, tese l'orecchio, quel sorriso scomparve, e tutto il volto espresse una puerile, amara delusione. Quelle musiche, quelle voci, quel brusìo della festa non si sentivano più. Al loro posto, ma abbastanza lontano, delle trombe di automobili ferme, passi vivaci nella strada (gente che correva) e quella musica leggera e triste dietro il muro: Era de maggio, no, nun me ne scordo, 'na canzone cantàvamo a doie voce... Si volse alla finestra. La sposa usciva in quel momento dal portone di casa, quasi in fondo al vicolo, circondata dai parenti. Era lunga, magra, commossa, tutt'altro che bella. Rimase un attimo esitante, riparandosi con la mano dal sole già caldo, e sembrava pensasse mille cose. Si sentivano molte altre voci, stranamente alte e contente, voci di grande tristezza, poi quelle due o tre macchine si mossero. Con la testa appoggiata al vetro, come un bambino, Antonio Zappulla guardava, e i suoi occhi erano colmi di lacrime. Non aveva fatto in tempo, non l'aveva salutata. Ma chi non aveva salutato? Non lo sapeva già più. Le lacrime gli scorrevano lungo le guance incavate, sul mento, sul davanti della giacca unta, sulle mani gonfie di vene azzurre, mani sporche che reggevano la pipa dove il fuoco era spento. Era così preso in quella specie di vaneggiante attenzione, di smarrito pensiero, che a un tratto la pipa gli scivolò a terra e si ruppe. In quel punto preciso, mentre la musica, dietro il muro, taceva di colpo, e la stanza sembrava divenuta più scura, gli occhi scintillanti di Olga lasciarono di fissare il malato, e si abbassarono. Le parve che avrebbe passato l'intera vita in ginocchio davanti al suocero, a raccogliere quei cocci, se l'inferno che aveva in cuore si fosse placato, se quella dolce musica dietro il muro avesse continuato ancora, per lei, se la vita avesse smesso di essere una fossa, se ci fossero stati dei fiori, della luce... Provò compassione di lui, della sua spensieratezza di prima, dei suoi dolori di oggi, compassione di sé e della propria malvagità. E il suo spavento, pensando che tutto questo dolore era stato inutile e nello stesso tempo inevitabile, fu così grande che mosse le labbra come per chiamare aiuto. - Papà! - disse forte. - Eh! - fece il vecchio volgendo la testa già piena di niente. Aspettava come un fanciullo una parola di conforto. 62 Essa lo guardò, e di nuovo il suo cuore era misero, rassegnato. - Io esco - disse semplicemente. UNA MACCHIA Nella cantina di campagna dove entrai a ordinare un bicchiere di vino, non c'era nessùno: ma da una finestra aperta nel muro di levante (una finestra non più grande di un quadro), si vedeva un tale sfolgorio di luce, e l'azzurro e il verde del cielo e della campagna erano così sprofondati in quel bagliore, da sembrare coperti da un sottile foglio di carta velina. Sotto la finestra doveva esserci un orto, perché un piccolo albero di pesco, completamente coperto di fiori, si affacciava, per così dire, in quella brutta cornice di legno nero. Se fosse stato una bella ragazza o un fanciullo, invece di un albero, non avrebbe espresso in modo più intenso il piacere di esse~e così vivo e bello. Si poteva immaginare solo che avrebbe sorriso. Invece era un albero, e tutto ciò che faceva era splendere, e leggermente rabgrividire. La mattina era calda e magnifica, l'aria immobile, eppure quei fiori, aperti come bocche alla luce, palpitavano impercettibilmente, esprimendo la gioia infinita di esistere. A coronare questa sua sensazione di estasi, due farfalle bianche, ubriache di luce e di calore, andavano dall'uno all'altro dei suoi fiori, e solo per qualche momento si allontanavano nel cielo azzurro, come incerte nella scelta, moribonde di felicità. Sentii dei passi, e credendo che fosse la padrona, una donna giovane con cui avevo parlato altre volte, non mi voltai, continuai a indugiare nellacontemplazione.di_quelramspettacolo. La gioia vivente di quell'albero, l'estasi delle due farfalle, il turbinio della luce, quella specie di immenso velo turchino steso sul mondo, come una veste di sposa, mi facevano sentire il respiro confuso e ineffabile della natura, mi portavano il palpito di tutte le infinite forme di vita sparse per la campagna, e al di là di quella stessa campagna, dove tutto germinava e fioriva senza misura, senza perché, in uno smarrimento di gioia, in un silenzio meraviglioso. Una voce debole e quasi priva d'intonazione, mi domandò che cosa volessi, e subito una testa nera, enorme, passò come un' ombra sulla luce di quel piccolo quadro. Non avevo mai visto quella creatura informe, vestita di nero (era il mattino di Pasqua) come se per essa non esistessero la natura e la gioia, e la vita fosse una penombra, un lutto continuo. Si sarebbe detta un animale, cane o capra, che da poco avesse imparato a camminare sulle zampe posteriori. Procedeva infatti in un modo curioso, una specie di saltellìo, e così arrivò dietro il banco. Allora mi guardò con due occhi piccoli e tranquilli, occhi, pensai, non avvezzi alla luce, di dietro una massa di capelli grigi di polvere, squallidi come la vecchiaia. Anche il giubbettino che indossava era lacero, sporco, e al posto dei bottoni c'era dello spago. Dava l'impressione di essersi trascinata sottoterra, per arrivare fin lì. Mi guardava con un sorriso tenue, gelido. Era una bambina. Chiusi un momento gli occhi, era troppo ripugnante, e dissi che volevo del vino. Mentre me lo versava da un boccale verde, tornai a guardarla, e mi convinsi che, malgrado ne mostrasse cinquanta, non aveva più di dodici anni. Il busto era gonfio, come una gabbia che qualcuno avesse schiacciato con i piedi, si alzava davanti e di dietro, in due gobbe. Il collo, come un filo, bianco e storto, su un lato, sosteneva un viso senza tempo, color della cera, sul quale i capelli calavano un sipario d'erba secca. I polsi e le

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==