Linea d'ombra - anno X - n. 71 - maggio 1992

DUE RACCONTI Anna Maria Ortese Con questo ra.cconlo. Anna Maria Ortese inizia la sua collaborazioni' alla terza pagina dl' "L'Unità". È il 21 febbmio 1954, ilgiornodel "racconto della domenica". Lu Ortese, trentenne, ha RÌIÌ alle spalle un centinaio di articoli sparsi in almeno dieci differenti testate, t' ha pubblicato tre libri. Angelici dolori ( 1937) e 11 mare non bagna Napoli (1953)- il primo e l'ultimo - l'hanno imposta all'attenzione della socie1ti letteraria, tramite l'aulorevole avallo di Bontel/lpelli prima e Vittorini poi. Mattina di festa è 1111 racconto interessante perché è uno fra i pochissil/li testi artesiani che testimoniano unafase di compiul/1 adesione a un paradigl///1 novellistica tradizionale. prima che neorealista nuturalistico, ispirato al nostrano verismo psicologicofine ottocentesco. D0110 la libera affabulazion,· fantastica e memoriale dei testi raccolti in Angelici Jolmi. ,, in.,i,,111<' /lllo .lfl<'ri111<'11t/lli.11no chl' sforza e dilata il modello della cm1wca-i11chiesw giomalis1ica (no/evolissimo il risultato in Il silenzio della ragione, nel Mare), lascrittrice prova il racconto strutturato e il 'documento umano', l 'an.alisipsicologica e lo spaccato sociologico, che già aveva dato un ottimo esito nel suo testo forse oggi più famoso, la novella Un paio di occhiali. Insieme al secondo racconto del Mare, Interno familiare, a Una vita ("Noi donne", 20 maggio 1951) e a Ritorno tra la mia gente ("l'Unità", 28 marza 1954), ecco la fase di organizzazione del racconto in senso tradizionale: un. baricentro poi sempre eluso con escursioni di intonazione e soluzioni formali definibili giusto come 'artesiane'. All'inverso, però, infiligrana si ritrovano qui i suoi tipici temi filtrati da un atteggiamento verso il mondo che non è cambiato nel tempo né si è modificato in relazione alle diverse tecniche espressive impiegate dalla scrittrice nella sua ormai lunghissima carriera: basti leggere anche Una macchia, apparso in "Milano-sera" (24-25 giugno 1949). Cinque anni prima di Mattina di festa, con un 'impostazione del tutto differente, il lucido sguardo artesiano commosso e partecipe - ma mai lamentoso - per l'umanità più negletta, è il medesimo. (Luca Clerici) · MAfflNA DI FESTA In casa Pezza, al Vico Due Porte a Montecalvario, c'era festa fin dalle prime ore della mattina di maggio; i balconi dell'appartamento, al secondo piano di una casa gialla, erano tutti aperti, e così le finestre, e arrivavano nella strada voci allegre, risa, note staccate di pianoforte (come se chi suonava subito smettesse, 60 distratto da quell'aria di felicità), e scoppi di bottiglie stappate, e tintinnìo di bicchieri. Si sposava la figlia maggiore del corniciaio, ed erano venuti .parenti da tutte le parti, perfino da Caivano. Nel vicolo, quel rumore, quei passi di festa, quelle note rapide del piano, quel brusìo e, ogni tanto, quei: "Viva! Alla salute degli sposi! Evviva gli sposi!", giungevano come una musica, e non c'era chi, pur brontolando, non stesse con tanto d'orecchi, incantato, a sentire. Uno di questi era il suocero della Francesa, AntonioZappulla, che abitava con la nuora e i figli nella casa di fronte, un piano più sotto dove non arriva il sole, e fino a qualche tempo addietro, prima che la vecchiaia precipitasse, si era fermato qualche volta a scambiare quattro parole per via con quelli di casa Pezza. ·'Sembra un giovanotto, quanto è simpatico quel suocero della Francesa!", dicevano allora di lui le figlie del corniciaio. Benché i loro pensieri fossero presi soprattutto dalle cose della loro età, e non avessero occhi che per i giovani, vedevano con simpatia, quando lo incontravano, quel buon uomo dal viso ingenuo, infantilmente felice di respirare e chiacchierare. Adesso, certo, non lo avrebbero riconosciuto più. Erano vari mesi che Antonio Zappulla non usciva di casa: dai piedi alle ginocchia era coperto di piaghe che si allargavano, dovute certo a qualche ristagno del sangue, il capo gli era diventato bianco e scarno fino a scoprire le 1inee del cranio, la pelle si era fatta floscia e pallida, gli occhi smarriti; non faceva che appisolarsi e chiedere con voce stridula e lamentosa che gli portassero dei ferri da stiro ben caldi per metterli sotto le coperte, ché un freddo terribile lo tormentava. La mattina, però, era sempre in piedi, benché barcollasse, e con una sciarpa rossa incrostata di sudore intorno al collo, la pipa spenta tra le mani senza sangue, rimaneva per ore in piedi davanti alla finestra, guardando con una sorta di velata avidità nel vicolo, dove passava sempre gente, e dove un tempo anche lui aveva camminato. Anche quella mattina era là, e sebbene i suoi occhi continuassero a muoversi, non vedeva nulla. Era evidente, però, che sentiva. Qualcosa di quella beatitudine, pioveva dalla finestrella aperta fino a lui. Nella sua mente indebolita, dove tutto ormai era oscurità e dolore, trapelava con quei suoni, quelle voci, quella contentezza un ricordo rapido e ineffabile della vita, si comunicava al sangue, e piccoli brividi del tutto fisici, come se avesse ancora più freddo, lo attraversavano. A pochi passi da lui, nella stessa stanza del malato, che era una specie di corridoio buio e sporco, arredato con una branda, delle casse e un tavolo annerito, e proprio su quel tavolo, dove aveva disteso una copertina di lana, Olgà Zappulla, chiamata la Francesa perché da ragazza avevajavorato in una casa di mode e conosceva bene quella lingua, stava stirando un cencio di seta rossa, che doveva mettersi per uscire. Era una donna ancor giovane, ma sciupata, con la pelle pallida e gli occhi incavati e insieme privi di profondità. Da tutto il suo viso e dalla stessa pelle, dalla fronte impercettibilmente aggrottata e dalle labbra sporgenti, spirava un ribrezzo profondo per quel luogo, e doveva farsi forza per non guardare dalla parte del malato: se al

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