Linea d'ombra - anno X - n. 71 - maggio 1992

è il mio incubo. Le ragioni di questo lungo silenzio sono in gran parte soggettive: l'incertezza di cui ho sofferto, i due anni passati a Roma (una borsa di studio) con tutte le distrazioni della scoperta e dell'adattamento a un paese nuovo, ma soprattutto la mia tendenza alla complessità, che mi costringe a una grande lentezza, difficile, forse, da misurarsi nell'opera compiuta. E c'è una ragione obiettiva, culturale: ossia la mancanza di una vera tradizione letteraria negra, per cui molto spesso mi trovo costretto a guardare alla materia di cui scrivo - l'esperienza negra - attraverso gli occhi di scrittori che appartengono a culture molto diverse dalla mia. Gli scrittori americani in genere tendono a far carriera rapidamente, secondo il ritmo della civiltà industriale in cui vivono: a mio parere bisogna, invece, resistere al pericolo di logorarsi in una produzione eccessiva. Poiché, dopo Uomo invisibile, mi sembrava di non aver più nulla di urgente da dire, ho atteso che il tempo lavorasse a ricaricare le mie energie, a riformare le mie emozioni. Ritornando al problema della segregazione, pensa che romanzi come il suo possano contribuire validamente a una soluzione concreta? Qualunque siano le intenzioni dèll'autore, tali romanzi esercitano inevitabilmente un' intl uenza. L'ombra che la tensione razziale proietta sulla vita americana è così grande che qualunque rappresentazione dell'esperienza negra assume carattere politico. Ma, al di là di queste inevitabili interpretazioni, io cerco di ricordare, nell'interesse del mio lavoro, che non sono soltanto il rappresentante di una minoranza razziale, ma uno scrittore che vive nel mondo moderno, un mondo su cui si esercitano pressioni non dissimili da quelle che hanno dato alla storia dei negri americani un carattere inconfondibile. È favorevole a una letteratura negra con personaggi esclusivamente negri? Poiché la vita americana ha sempre avuto, malgrado la profonda lacerazione del conflitto razziale, un carattere originale, non credo alle discriminazioni razziali trasferite nella letteratura. Ma penso che il patrimonio negro, il nostro folklore, la nostra storia, costituiscano una ricchezza: se troppi romanzi di scrittori negri sono privi di valore, ciò non è dovuto alla povertà della nostr~ tradizione, ma a un loro falso concetto della letteratura. Grandi scrittori come Mark Twain o Faulkner hanno saputo fondere nelle loro opere il folklore negro con le tradizioni popolari dei bianchi. Personalmente, io riconosco nell'esperienza americana alcuni elementi comuni ai bianchi e ai negri per ridurre i quali a romanzo sento di dover guardare all'esempio delle grandi opere del passato e non alle conclusioni della sociologia. Come spiega ilfatto che il nuovo romanzo americano ci offra dell'America un'immagine cosìframmentaria? Storicamente non siamo ancora una società omogenea; direi che il nostro cammino verso l'unità spirituale della nazione non è ancora compiuto: per questo è così facile per lo scrittore americano rappresentare un frammento della società in cui vive e dimenticarne l'insieme. E credo che per qualche tempo ancora il romanzo americano soffrirà di questa frammentarietà, che i singoli romanzi continueranno a essere simili a pietre di un mosaico, il cui disegno sarà chiaro soltanto nel futuro. INCONTRI/BALDWIN AD HARLEM E LONTANO DA HARLEM Incontro con James Baldwin a cura di Marisa Bulgheroni James Baldwin (New York 1924-87) è cresciuto nel ghetto di Harlem, dove è stato, ancora ragazzo. predicatore prima di fuggire nel '48 a Parigi. Qui incontrò Richard Wright e fece della scrittura la sua vera vocazione. Tornato in pat:tia, aderì al movimento peri diritti civili, impegnandosi sul fronte antisegregazionista e suscitando, con i suoi interventi, numerose polemiche. Nei suoi romanzi si incrociano il tema della diversità razziale e quello della diversità omosessuale, l'influenza del blues, e un afflato profetico e ribelle che sostanzia anche, e inparticolare, i suoi saggi. Tra 1 romanzi ricordiamo Gridalo forte (1953), La camera di Giovanni (1956), Un altro mondo (1962), Stamattina, stasera, troppo presto (1965), Dimmi da quando è partito il treno (1968), Se la strada potesse parlare (1979); tra i saggi Mio padre doveva essere bellissimo (1955), Nessuno sa il mio nome (1961), La prossima volta il fuoco ( 1963). Baldwin ha scritto anche per il teatro: Blues per l'uomo bianco ( 1963), Sulla mia testa (1979), ecc. È stato edito in italiano perlopiù da Feltrinelli. Quando e come ha scoperto la sua vocazione per la letteratura? Ho sempre desiderato fare lo scrittore, fin da quando ero bambino, ma soltanto sui diciannove anni mi resi conto che non avrei potuto fare altro, che non avevo qualità per fare altro; fu a quell'età che cominciai a scrivere seriamente. Le mie intenzioni allora non erano chiare, non avevo ancora una coscienza letteraria. La mia vocazione si chiarì veramente quando cominciai a scrivere il primo romanzo. Il mio problema, come scrittore all'esordio, era il controllo: riuscire a controllare me stesso, e la mia rabbia, e il furore e tutto quello che mi sentivo dentro. Quel grido non avrebbe mai potuto trasformarsi spontaneamente in parole, dovevo imparare a scrivere. Così, solo attraverso molte letture e lunghe meditazioni e un arduo esame di coscienza la mia inclinazione naturale si trasformò in un impegno culturale profondo. Oggi so che il problema dell'artista non è soltanto un

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