Linea d'ombra - anno X - n. 71 - maggio 1992

IDENTITÀNERA a cura di Marisa Bulgheroni Nella primavera del '59 Fu nella primavera 1959 che incontrai a New York Ralph Ellison, già noto anche in Italia per il suo Uomo invisibile, e James Baldwin, ancora sconosciuto, ma destinato a una fama improvvisa e a una morte prematura. Baldwin viveva allora ai margini del Greenwich Village, in una via senza scorci d'alberi o nuvole, Horatio Street. Ricordo i camion parcheggiati in lunga fila come grige carovane, e la sua stanza, simile a quella descritta in La camera di Giovanni, il suo romanzo parigino. Fa freddo, il caminetto di pietra è spento, la coperta verde sul letto è logora, e la polvere nera di Manhattan pare essersi posata dovunque, ma qui vive un giovane artista tra i molti libri accatastati sul tavolino, sul davanzale, sul pavimento, e dalla finestra aperta entrano, con la luce bianca del pomeriggio di primavera, le grida dei bambini. Baldwin è piccolo e rapido come un ballerino; porta pantaloni scuri, aderenti, e una camicia a quadri azzurri e neri; le mani inseguono le parole se si appassiona a un discorso; la sua dolorosa intelligenza vuole sempre toccare il fondo delle cose. Sembra aver superato la rabbia di cui racconta nei saggi di Mio padre doveva essere bellissimo, ma non l'amarezza (e oggi sappiamo che la rabbia riesploderà facendosi profezia in La prossima volta il fuoco). Potrebbe essere un personaggio patetico se la lucidità non fosse, in lui, più potente della malinconia. Accanto a Baldwin ci si chiede, assurdamente, perché il colore della pelle abbia ·ancora, nell'America dell'opulenza, il peso di un destino. Eppure l'unicità di questo scrittore è nell'avere tentato di accettare totalmente, contro se stesso e contro i pregiudizi razziali operanti con la forza di leggi, la condizione di nero americano ("negro", si dice nel I959) come una condizione difficile ma ricca, eccezionale non solo per la sua durezza, ma per la sua novità storica. Dopo aver vissuto per anni d'odio, come di un pane quotidiano, Baldwin se ne è liberato, rinunciando alle tentazioni più facili per un intellettuale nero: eludere il problema razziale integrandosi nel coro delle voci americane o farsene un'arma di successo. Per arrivare a capire "la verità più semplice e insieme più difficile" sul rapporto tra bianchi e neri in America - ossia che, se i neri hanno patito l'ingiustizia di una situazione "assurda", anche i bianchi, che l'hanno inflitta, ne sono stati contagiati - Baldwin ha dovuto percorrere un lungo cammino: da Harlem, dove è nato, a Parigi, dove ha scoperto di essere vivo, libero, un uomo nel mondo prima che un nero, al Village, dove si è stabilito al ritorno dalla Francia. È stato un cammino dal furore oscuro alla lucidità: l'inizio di una carriera letteraria che si intreccerà all'impegno civile, quasi che l'esistere da nero - e lo scriverne - fosse per lui la forma suprema di testimonianza politica. Oggi Baldwin parla con appassionato distacco anche del periodo più difficile della sua vita: l'adolescenza, minacciata dalla percezione della sua diversità di "negro" e di "omosessuale". Il padre, un immigrato povero venuto dal Sud, era predicatore, ed egli stesso ha vissuto con intensità l'esperienza religiosa tra i quattordici e i diciassette anni. In Gridalo forte, il suo primo romanzo, sono rievocate le albe grige di Harlem, all'uscita di chiesa, la violenza del misticismo urbano, disperato come la nostalgia di un altrove inesistente. Baldwin odiava in Harlem la gabbia in cui la sua vita era imprigionata e amava la semplicità e l'insolenza della sua gente nel parlare con Dio. È difficile capire la singolarità del dialogo con il divino se non si è mai vista una chiesa di Harlem. E io vi entrai quasi per caso qualche tempo dopo l'intervista a Baldwin, il mattino di Pasqua. Arrivando dalla Fifth Avenue fiorita di una primavera artificiale-fiori falsi sui cappelli delle signore che uscivano dalla cattedrale di St. Patrick, spigolosi alberelli conficcati in vasi - Harlem mi parve davvero una immensa gabbia di mattoni neri, di asfalto e di fumo dove soltanto i negozi spiccavano per il colore delle insegne, quelle fantasiose delle chiromanti e quelle, per noi inconsuete, delle chiese, come se a Harlem si vendesse soltanto il futuro o l'amor di Dio, il denaro tra qualche anno o il paradiso. Nella "church of God" in cui capitai, uno stanzone polveroso al primo piano di una vecchia casa, infuriava un jazz primitivo: organo e tamburelli e piedi battuti sul terreno di legno, e mani agitate nell'aria, corpi travolti dal ritmo, fulminati dall'occhio di Dio. I gigli pasquali fiorivano bianchissimi nei vasi e le Sorelle della congregazione si abbattevano al suolo vestite di bianco come enormi angeli di un paradiso folle, dove i santi erano dolci negri in abiti di gabardine chiaro che allungavano con un sorriso distaccato la cassetta delle elemosine. C'era in quella preghiera collettiva fatta di musica, di grida e di danza una tale gioia arcaica e selvaggia che mi sentii fisicamente scaraventata nell'epicentro di una cultura. La forza dei miti e del folklore nero, la suggestione dell'eredità africana - in cui gli scrittori della Harlem Renaissance degli anni Venti, e in particolare Zora N. Hurston, avevano per primi cercato i principi formali su cui costruire una propria tradizione- le percepii allora, nell'arco di un attimo, in quella stanza affollata. E solo quando cadde il silenzio e si alzò solitaria la voce del predicatore, dell'impresario d'anime, e tutto quel bianco e quel nero, quei brividi di salvezza e dannazione si placarono, mi ritrovai, estraniata, in America, consapevole della "doppiezza" dell'esperienza nera. Se Baldwin ha saputo orchestrare Gridalo forte sui ritmi sincopati del sermone e della preghiera, Ralph Ellison ha costruito il suo Uomo invisibile come un blues (lo dirà nel 1968 Edward Margolies in Native Sons): entrambi anticipando li trionfale recupero del folklore nero che si compirà negli anni Sessanta e Settanta e troverà i suoi esegeti negli Ottanta. Intervistai Ellison qualche giorno dopo la visita a Baldwin, a casa sua, un grande palazzo grigio, dove vive tuttora, tra Harlem e Riverside Drive. Le strade sono ancora affollate e squali ide, ma già si respira l'aria del fiume. C'è la rispettabilità, ma con la nostalgia per il duro passato e la fedeltà alle origini. La storia di Ellison è stata difficile quanto quella di Baldwin: l'infanzia al Sud, dove suo nonno aveva portato al piede la catena dello schiavo, la lunga invisibilità al Nord-prezzo dell'apprendistato musicale, politico, letterario, da cui è nato il suo romanzo - e infine il successo inatteso e le improvvise responsabilità intellettuali, l'obbligo di difendere la propria vocazione d'artista da chi vorrebbe vedere in lui soltanto un portavoce della razza. Ellison rifiuta l'etichetta di scrittore di "protesta"; non vuole essere un nuovo Richard Wright. Come Baldwin, ha assegnato ali' esperienza nera un significato esemplare. Come i na1rntori p.iù acuti degli anni Cinquanta - Mailer, Bellow e Malamud, William Styron e Flannery O'Connor, J. D. Salinger- ha scelto di fare del romanzo non lo specchio di una situazione sociale, ma lo strumento di un'indagine esistenziale che eleva il caso singolo a sintomo di una condizione di minoranza e insieme della stessa condizione umana, minacciata per la prima volta nella storia dai pericoli incrociati della bomba atomica e dell'alienazione. Ci vorranno decenni perché questo progetto narrativo, discontinuo ripsetto al passato modernista e naturalista, e rispetto al futuro postmoderno, riveli la sua capacità di rintracciare nello specifico - nell'etnia, nella subcultura, nel regionalismo, nel linguaggio di gruppo-l'esemplare: non per sminuire le differenze, ma, al contrario, per renderle visibili a una società ciecamente incline allo scisma tra bianco e nero, pubbi ico e privato, americano e antiamericano. Nel suo appartamento, arredato con un'armonia discreta di rossi e di grigi, tra i molti libri, i quadri, le piccole sculture africane, Ellison sembra affrontare una nuova, volontaria, fase di latenza. Se Baldwin vive della stremante passione di capire, di spiegare, di esaurire intellettualmente l'esperienza, Ellison ha la calma profonda dei narratori nati. La sua stessa presenza al confine di Harlem, sulla linea del fuoco, è una testimonianza; fa di lui, anche nel silenzio, il custode e il deposi tario della nuova letteratura nera, in nome della quale prenderà la parola- in saggi, interventi, racconti -quando sarà spinto dalla forza di una necessità cheper lui si identificherà sempre con le ragioni dell'arte. Nella primavera del 1959 lavora a quel secondo romanzo che forse non pubblicherà mai o che ci sorprenderà con la violenza del primo. (M. B.) 33

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