Francesco Rossetti,Loredana Oddone, Michele Nucci e Francesco Rossini in una scena di Degli eroici. cli esprimersi in maniera diretta e chiara sia pure per un momento: ci si assume la responsabilità di definirsi in modo concreto su dei punti. In questo senso c'è nello spettacolo un discorso indiretto sull'ironia, raggiunto attraverso un'esperienza collettiva: c'è la ricerca, attraverso delle storie concrete e persona! i, di mettere in scena qualcosa che avesse lo spessore di un presente tangibile, con tutte le sfaccettature e tutta la possibile ironia interna, di complicità tra di noi, ma senza il bisogno di doverne necessariamente parlare: non una riflessione su qualcosa,.ma un modo di agire, di sentire. Francesco Rossini. Il divario tra i venti e i trentenni nello spettacolo è abbastanza sottile. C'è stata una grossa complicità rispetto alle tematiche, ci siamo trovati a fare metà strada ciascuno, noi e Carlo, e ha funzionato. C'è poi stato il grado di intesa che è esistito tra di noi attori, presi uno a uno, ognuno con il suo ragionamento, ci sarebbe stata una difficoltà maggiore, un lavoro di teoria e di dialettica, e sarebbe stato tutto più difficile. Si parla di molte cose importanti nello spettacolo, ma in un modo, diciamo, astratto, non agganciato a una specifica realtà e a uno specifico tempo. Qui si rimane su un terreno mediano, alle essenze, ma vestite di carne, di concretezza: l'adolescenza co~ie momento biologico, ma poi anche la memoria e l'utopia, che hanno anche una loro specificità storica, con.tingente... Bruni. L'obiettivo che avevamo era di trattare una condizione, per esempio c'è nel testo anche il tema della ferita, del dolore come amore, della ferita come uno stato positivo dell'animo. Questa condizione generale, dell'animo ferito, trova nell'adolescenza potenzialità più evidenti, meno nascoste e ideologizzate, che lontani dal1' adolescenza non si riesce più aleggere. Obiettivo dello spettacolo era questo: mettere a nudo 32 CONFRONTI questa condizione sfruttando la nostra oggetti va condizione. Ma questo obiettivo sarebbe restato valido, credo, anche se traslato di vent'anni, con altre generazioni a confronto. Nello spettacolo, alle prime scene c'è la chiesa, come se per i ventenni di oggi fosse ancora importante l'esperienza della parrocchia, di fare il chierichetto, e c'è poi spesso la scuola, ma non c'è lafamiglia ... Bruni. C'è una continuità, la chiesa continuava ad avere molta importanza (a giudicare dagli spettatori giovanissimi, quelli delle scuole medie, che abbiamo avuto in alcune rappresentazioni, non è più così, e quelle scene, con i loro rimandi a certi riti di esperienza comune, non le capiscono più), non c'era differenza nei ricordi miei e dei ventenni ... La famiglia invece non c'è anche perché non potevano mettere dentro lo spettacolo tutto, ma forse è perché nell' adolescenza si tende a mettere da parte la famiglia, a nascondere l'incidenza che ha nella tua vita, e tu hai bisogno di sottolineare l'indipendenza, una sottolineatura che nello spettacolo torna spesso e sulla quale, credo nello spettacolo stesso, l' ombra della famiglia ha il suo peso. li centro dello spettacolo e del 'esperienza adolescenziale è piutlosto il gruppo, il gruppo dei coetanei, e la famiglia è la sua negazione. Un'altra assenza è il successo, il mito del/' emergere, la competitività sociale (qui la competitività è nel gruppo, piscologica, interna al gruppo e non al sociale), cose da anni Ottanta. Bruni. Per quello che mi riguarda, c'erano alla base due acquisizioni, Beckett che dice che una ragione buona per vivere è l'insuccesso, e Capitini, sulla capacità di compiere un proprio discorso astraendo dal consenso. Su questo ho insistito io, ma anche nel gruppo ho trovato questa dimensione: di muoversi per piccoli aggiustamenti sulla strada dell'apprezzamento di questi valori, estraneialla logica dell 'affermazione, della competitività sociale, del "successo". Voi attori, avevate in mente immagini determinate di attori, punti di riferimento? Si sentono genericamente dei modelli americani, ma poi lo spettacolo è molto italiano... La recitazione che risulta sembra molto diversa da quelle cui siamo abituati, dove comunque, nel teatro che si vede, l'attore recita sempre, è vistoso, lo si vede sempre nel 'atto di recitare... Rossetti. Non un attore preciso, ma ce1to di più quelli cinematografici, i De Niro o i Rourke o certi dei più giovani. L'identificazione avviene più con loro (e anche con i mezzi che loro usano, che sono mezzi molto cine;natografici, per esempio i primi piani, il loro modo di esprimere l'interiorità, di mettersi in scena) che con attori di teatro. Bruni. Il problema è stato quello di far coincidere il "recitare" e le sue influenze, e lo "stare in scena" ... e allora è possibile vedere una recitazione che lascia trasparire un grosso affetto per la recitazione americana, e la sostanza però italiana, l'essere del tutto dentro la nostra cultura italiana di attori teatrali. Da una parte c'era una tendenza, e dall'altra il lavoro dello spettacolo, che ha diminuito quella tendenza e quelle influenze, valorizzando via via il patrimonio di una cultura specifica da attori teatrali. Il risultato dipende anche dal grande lavoro fatto sui dettagli, che ha significato riduzione, eliminazione di tutto quello che poteva risultare psicologico. Più che di parole, lo spettacolo è fatto cli azioni. In cinema la spontaneità è legata al mezzo, c'entra la scelta, il montaggio, in teatro riguarda la capacità di analizzare una struttura di azione e di riprodurla in modo che non perda la sostanza di un'emozione. Rossetti. La spontaneità va recuperata. Ci sono momenti in cui la spontaneità non serve più, sparisce, ma poi viene recuperata. C'è un processo che è lento, tra la partenza, che può essere spontanea, l'artificiosità della recitazione e la spontaneità del risultato finale. A teatro ho spesso l'impressione che si veda uno spettacolo prima del tempo, prima che la spontaneità sia stata recuperata. Noi siamo partiti dall'improvvisazione, poi c'è stato il ragionamento, la tecnica, e alla fine è tornata, è arrivata la spontaneità. Emanuele Montelione. Vorrei aggiungere che se lo spettacolo ha avuto successo, se è piaciuto a molte persone dipende anche dal fatto che noi siamo una compagnia di ventenni. In giro non mi pare che ce ne siano molte. In ogni città oggi ci sono dozzine di scuole di recitazione per giovani, ce n'è un'infinità, ma mentre ci sono moltissimi miei coetanei che seguono corsi di teatro, sono poi p9chissimi quelli che hanno la fortuna di fare delle cose (dico fortuna perché spesso dipende dagli incontri, dal caso) ..Credo poi, per quello che riguarda la recitazione, che il pubblico apprezzi il fatto che noi ci mettiamo in gioco, che ci sia chi si mette in gioco. Noi diciamo delle ;::ose che ci appartengono. Anche se il mio personaggio per gran parte mi appartiene (e mi sono dunque messo in gioco) e in gran parte no. Ho contribuito alla stesura delle sue battute, alla sua definizione, ma ci sono dentro le due cose: una parte che sono io, e una parte no, e che anzi mi sta antipatica. La scommessa è di riuscire a convivere con quella parte del personaggio che non sono io e che mi sta antipatica ...
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