CONFRONTI ha condotto a un "successo ecumenico, interclassista, che stringe in un imprevedibile abbraccio fascisti e marxisti". In altri termini: esiste un "Pasolini per tutti", un autore buono per tutte le stagioni e le mode, che può oggi essere sottoposto alle cure critiche apparentemente più divaricate quanto a metodo, ma nella sostanza, cioè nei contenuti, tutte concordi nell'imporre un'immagine aproblematica del proprio oggetto. Per un conformismo affatto "italiano", anche il nostro scrittore più scandaloso ha pieno diritto post mortem a una valorizzazione senza riserve, talemagari da sfigurarne alcune delle caratteristiche fondamentali (e fra queste mi sembra assurdo non annoverare quel tasso spesso altissimo di approssimazione formale, quell'assenza cioè di autentico spirito autocritico circa la qualità del prodotto artistico, che negli anni a cavallo tra i Sessanta e i Settanta ha permesso a Pasolini di imbarcarsi in intraprese espressive assai ineguali). Tagliare dall'immagine d'uno scrittore tutto ciò che di contraddittorio vi si manifesta non è certo il miglior modo per rendergli omaggio; tanto più nel caso di Pasolini, che non temeva di ridiscutersi e anzi teorizzava esplicitamente (si pensi all'abiura della "Trilogia della vita") la precarietà delle proprie proposte. Ma il problema più grave, a mio avviso, è un altro ancora; e purtroppo vedo che parecchi collaboratori di "Linea d'ombra" l'hanno in passato decisamente trascurato. Anche in questo caso mi pare opportuno riprendere le parole di Brevini, quando ha scritto che Pasolini "ha rappresentato forse l'ultimo esponente di una delle più funeste illusioni che hanno caratterizzato il nostro secolo: l'illusione, secondo cui allo scrittore è dato il privilegio di intervenire en poète, e il mondo può essere cambiato dalle metafore". Troppo spesso, voglio dire, il Pasolini più elogiato è stato ed è quello maggiormente "ideologico", quello "corsaro" o "luterano", colui che si è messo a pontificare su ogni argomento politico e sociale, senza - almeno a me sembra - mostrare una qualche sensibilità per i chiaroscuri, le mezze tinte. Forte del proprio privilegio intellettuale e del proprio carisma di umanista vecchio stile, Pasolini giudica e manda inflessibilmente, e solo di rado si preoccupa di sfaccettare le proprie sentenze. "Omologazione" - come tutti sanno - è la parola da lui messa definitivamente in auge nella lingua e nella politologia italiana, ed è il concetto forse basilare del suo pensiero sociale; ma "omologante", a dire il vero, è pure il modo di ragionare di Pasolini, tanto che la reductio ad unum è la forma interna delle argomentazioni ideologiche da lui proposte. Francamente, non comprendo per quale ragione dobbiamo considerare profetico un autore che si rifiuta anche solo di prendere in considerazione tutto quanto di politicamente alternativo gli viene offerto dal suo -tempo. Anzi, la mia impressione è che nel Pasolini sociale agisca una sorta di cinismo in fondo molto leninista (secondo lo schema sempre aberrante del "tanto peggio tanto meglio"), in virtù del quale le smagliature del presente vengono drasticamente annullate a favore della tendenza che inevitabilmente prevarrà nel futuro. Facile, e appagante, prevedere che l'omologazione risulterà vincente, che tanti discrimini del passato entreranno in crisi; ma forse, per chi nell'omologazione oggi ci vive, sarebbe risultato ben più interessante poter scoprire gli elementi di contraddizione che tuttavia permangono dentro al sistema. In questo senso, gli s·critti di Pasolini mi comunicano pochissimo: e l'impressione quasi inevitabile è che - accertata l'impossibilità di una vera alternati va - tanto valga dir di sì all'esistente e celebrarlo. (Anche perché - a dirla rozzamente tutta-, se Pasolini avesse ragione, un piccolo-borghese coine il sottoscritto, già giovane omologato degli anni Settanta, oggi non dovrebbe nemmeno esistere in quanto persona che pensa e agisce secondo un'impostazione da molte persone ancora giudicata, forse un po' pateticamente, "di opposizione" ...). Parecchi, d'altronde, potrebbero essere gli esempi delle superficialità presenti nel Pasolini più apocalittico: basti pensare (cfr. le Lettere luterane, p. 90) che per lui il "consumismo" non produce una cultura degna di questo nome; e pertanto tutto ciò di cui fruiamo nell'universo dell'industria culturale deve essere teoricamente ridotto (in modo ben più radicale di quanto non facessero i più drastici tra i francofortesi) al rango di una manifestazione di barbarie. E poi non dimentichiamo che nella sua inconfessata, ma di fatto attivissima, ansia di omologazione e di manicheismo il buon Pasolini ha potuto scrivere uno dei più ridicoli elogi del sistema sovietico e dello stalinismo che sia dato leggere nella saggistica italiana degli ultimi vent'anni (andate a vedervi le pp. 59-60 degli Scritti corsari, e inorridite). Insomma, se l'accettazione acritica di Calvino è un fenomeno soprattutto letterario, e perciò di fatto relativamente innocuo, la santificazione odierna di Pasolini a me pare pericolosa, perché è di natura innanzi tutto politica e ideologica. Le geniali semplificazioni proposte dall'autore "corsaro" e "luterano" rischiano in fondo di indurre nel lettore una sorta di fatalismo (e di falsa coscienza) che allontana da ogni prassi non opportunistica. E tutto ciò, ahimè, è terribilmente conforme all'egoismo trionfante nel nostro mondo, che dietro la maschera impassibile della necessità epocale nasconde un sostanziale rifiuto della democrazia e d'ogni sorta di solidarietà. In fondo, se non c'è più niente da fare, se i giochi sono già perfettamente definiti, tanto vale saltare sul carro dei vincitori: troppa gente oggi la pensa così. Pasolini - lo so benissimo - non ragionava affatto in questo modo; ma il pasolinismo, almeno a me pare, a tanto rischia sicuramente di condurre. N o V I T À 25
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