CONFRONTI Un Pasolini mal canonizzato Paolo Giovannetti Fare d'un autore letterario contemporaneo un vero e proprio "classico" è un'operazione sempre rischiosa, come tutti del resto ben sanno. Si spalancano le contraddizioni più curiose e irrisolte, che dovrebbero suggerire- almeno nei lettori professionistiun atteggiamento di sistematico sospetto. Guardate per esempio quello che è successo a Calvino. Dopo la sua morte, lo scrittore è stato sottoposto a cure critiche ed editoriali che curiosamente oscillano tra la speculazione di indole commerciale e la seria, ovvero seriosa, ric9gnizione accademica. Oscillano, dico, perché manca proprio una via di mezzo tra i due estremi: tanto che, sul piano editoriale, convivono da un lato frettolose ristampe di singoli testi dispersi, infine assemblati in volumi discretamente pletorici (penso alla Strada di San Giovanni e a Perché leggere i classici), e dall'altro lato notevoli im_presecritico-filologiche (come la silloge dei "Meridiani" oppure gli inediti raccolti da Giovanni Tesio nei Libri degli altri), in effetti utili al lettore professionale ma forse non indispensabili per il consumatore comune. Dicotomia, questa, che si rispecchia fedelmente nella contrapposizione fra un Calvino "giornalistico", raccontato e reificato a uso del pubblico gazzettiero, e un Calvino ormai pienamente "professorale", accettato senza alcuna riserva dalla critica di ogni colore e sfumatura. Il "classico", si sa, è quell'autore che nessuno ormai più discute, e intorno al quale - anzi - il dibattito si intreccia in termini di mera "scientificità": l'accumulo di notizie positive, la ricerca dell'inedito, le diligenti ricognizioni bibliografiche, le indagini formali (tutte cose, peraltro, sempre profittevoli e auspicabili) rimpiazzano insomma l'impegno propriamente critico. E, inevitabilmente, seguendo una simile metodologia (in verità piuttosto perversa), si riduce di molto lo spazio per letture differenti da quelle accademicamente autorizzate e istituzionalizzate. Certo, non è giusto e non è detto che le cose debbano andare comunque in questo modo (non è chiaro, cioè, perché intelligenza interpretativa ed erudizione debbano quasi sempre escludersi); ma, ahimè, in Italia pare proprio che non si possa fare diversamente. Né il problema-ovviamente- riguarda solo Calvino, che dalla sua ha almeno una relativa omogeneità di esiti artistici, e ha saputo sempre amministrare con un minimo d'equilibrio e di prudenza la propria immagine pubblica. A ben vedere, infatti, il "classico" novecentesco che da parecchio tempo è al centro del maggior numero d'equivoci critici ed editoriali è un altro: cioè Pasolini. Un autore, intanto, che non si è davvero distinto per l'oculata gestione della propria persona e dei propri scritti, e che anzi ha sempre mostrato di giudicare lo sperpero di sé l'autentico fulcro operativo d'una poetica, la giustificazione prima d'un originalissimo intervento nel mondo delle arti. Per capirci di più, proviamo a sfogliare un'opera per molti versi meritevolissima come Le regole di un'illusione. I film, il cinema, curato da Laura Betti e Michele Gulinucci, per conto del Fondo Pier Paolo Pasolini di Roma. È il ricco catalogo della produzione cinematografica pasoliniana, completo di bibliografie, interviste, riflessioni di poetica, e di numerosi altri sussidi documentari. Nell'ultima parte del volume si leggono alcuni 24 interventi critici, di qualità peraltro discontinua, ognuno consacrato a un film del regista: gli autori svariano da Enzo Siciliano e Giovanni Raboni ad Antonio Tabucchi e Valentino Zeichen, da Ettore Scola a Lino Micciché e così via. Né si tratta - in fondo- di giudizi sempre inaccettabili (almeno per quanto è dato giudicare a un incompetente in cose cinematografiche come in effetti è il sottoscritto), bensì di ricognizioni in sé, singolarmente prese, spesso sensate e condividibili, capaci di valorizzare con intelligenza angolature metodologiche e tematiche anche molto differenti. Il vero problema è un altro, vale a dire l'impressione globale che se ne trae, la sensazione che resta una volta esaurita la lettura di tutti gli interventi. Parlerei senz'altro di un unanimismo aproblematico: tutti coloro che scrivono di Pasolini in quella sede sanno già, fin dall'inizio, qual è il loro compito, quanto e come devono elogiare, giustificare il loro oggetto; e svolgono la propria consegna senza tentennamenti. Curiosamente, poi, quella che i più diffondono è un'immagine di coerenza e di "chiusura" che - in relazione al cinema pasoliniano - appare francamente risibile. Come in una specie di incubo strutturalista, abbiamo l'impressione che nell'opera filmica esaminata tutto si risolva e si redima: il prodotto artistico, al di là delle apparenze, è compatto e coeso, cristallino e catafratto, immune da contraddizioni; ovvero, al limite, capace bensì di esibire i propri limiti, ma solo tatticamente, per poterli riscattare nella sintesi artistica finale. Capisco che l'affetto postumo, l'occasione vagamente celebrativa, e magari anche l'inevitabile desiderio di contrapporre il cinema "estremista" di Pasolini alla mediocrità appagata dei Pier Paola Pasolini in una foto di Giovanni Giovannetti molti e pulitini autori giovani d'oggi, siano altrettante motivazioni per indurre all'agiografia, all'elogio comunque incondizionato. Ma la situazione non appare per ciò meno fastidiosa e lievemente paradossale. Non è così, almeno a me sembra, che si fa della buona (e cioè corretta e utile) critica. Illuminanti a questo proposito mi paiono le parole di Franco Brevini (dal ·'Corriere della Sera" dello scorso 8 febbraio), il quale ha stigmatizzato l'odierna piatta celebrazione di Pasolini e del "paso1inismo", che infine
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