Linea d'ombra - anno X - n. 71 - maggio 1992

CONFRONTI L'idea della guerra partigiana come contrapposizione di due sistemi di pensiero è esclusiva di un'impostazione di tipo liberal-democratico. Una sua definizione limite è contenuta nella prefazione di Enzo Enriques Agnoletti alle Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana: "Il dato fondamentale non è la lotta contro lo straniero, è la lotta contro il fascismo, e il tedesco è combattuto quasi unicamente perché incarnazione ultima del fascismo suo alleato e complice". L'adesione a una prospettiva di guerra ideologica comporta, a rigor di logica, la negazione dei presupposti della guerra patriottica. Ora, nonostante certe incongruenze di una simile posizione (come si può perdere di vista la connessione di effetti tra guerra alleata e Resistenza?), sembra difficile negare ogni legittimità di fatto, come ha recentemente sostenuto Marco Palla in un articolo su "Passato e presente", alla matrice ideolo_gica della guerra parti_giana. Palla contesta la possibilità di utilizzare il termine di guerra civile per una guerra determinata da condizionamenti esterni, che non si configuri cioè con i caratteri "di una spaccatura storica non rimarginabile se non a prezzo di uno scontro armato, di una resa dei conti epocale, di un duello all'ultimo sangue tra i due campi". Prima di allontanare dallo scenario italiano le cause endogene di una divisione insormontabile tra le due parti del conflitto,-bi-sognerebbe però appurare le motivazioni originarie del conflitto; stabilire cioè non solamente la fisionomia del combattimento, ma anche Ja reale disponibilità dei combattenti. A prescindere dal diverso punto di vista con cui può essere letta la vicenda partigiana, sembra infatti innegabile che gli esiti politici della guerra di liberazione si rivelino in contraddizione con gli ideali originari della lotta armata. La denuncia di un tradimento allo spirito della Resistenza è stato per diversi anni il tema della polemica azionista. Nel ridimensionamento politico degli obiettivi iniziali (che consideravano la guerra di liberazione come premessa di una rivoluzione sociale), la Resistenza secondo Quazza (Resistenza e storia d'Italia, Feltrinelli 1976) finiva per depauperare "una spinta dal basso non solo autentica ma dotata di forza propria, un patrimonio etico-politico di inestimabile importanza per un rinnovamento profondo del paese". Un punto di vista che mi sento di condividere: anche contestando le incerte prospettive di una rivoluzione sociale condotta secondo uno schema liberal-democratico ma affidata a una base in larga maggi.oranza comunista, questa critica ha il merito di fermare l'attenzione sul divario tra i fini politici e i presupposti ideologici della Resistenza. L'idea che l'indagine storica abitualmente ci trasmette di questo movimento è il prodotto della fusione di due immagini: quella di una molteplicità di squadre e cellule autosufficienti, che si dispongono sul territorio come molecole di un organismo stabilmente insediato nel tessuto sociale, e quella dei suoi apparati di direzione politica e militare (in una storiografia tendenzialmente rassicurante come l'italiana la seconda immagine si proietta spesso sulla prima). Il motivo patriottico della guerra di liberazione tiene uniti i due livelli, spontaneo ed "istituzionale", dell'azione partigiana. Ma negli strati inferiori della lotta partigiana prevalgono le istanze più avanzate, che riconducono alle tipologie della guerra civile e di classe. Il partigiano si è arruolato non solo per liberare il territorio dalla presenza del nemico, ma soprattutto per difendere un'idea. "lo non so di altri partigiani all'incirca della mia età - dichiara il partigiano Johnny di Fenoglio -, ma io posso dirti che fui e sono partigiano per l'idea". I pretesti della scelta, lo si è detto, potevano essere anche casuali, la consapevolezza ideologica spesso confusa ("Comunista'? Ma che significava, e che comportava esattamente l'essere comunista? Johnny non ne sapeva nulla, all'infuori della stretta relazione con la Russia"), ma la sua partecipazione alla guerra di Resistenza non contempla ripensamenti o compromessi col passato. Il terreno del compromesso è quello politico. La continuità istituzionale tra fascismo e Stato repubblicano è l'effetto di una controspinta conservatrice che nella storia d'Italia tende a prevalere nelle fasi di maggiore accelerazione delle spinte al cambiamento. L'oggetto del compromesso è rappresentato non solo dalle omissioni nel processo di epurazione dei vecchi apparati dirigenti, ma anche dal mantenimento in vigore degli ordinamenti della polizia, dell'esercito, della diplomazia e della legislazione. È però difficile ignorare che la prevalenza di un obiettivo di stabilizzazione, che cristallizza la guerra partigiana al suo stato iniziale di guerra di liberazione, è soprattutto la risultante degli equilibri politici espressi dalla Resistenza attraverso la dominante ideologica cattolico-comunista. Ed è qui che la posizione azionista si rivela anacronistica. L'ultimo mito della storiografia della Resistenza risiede infatti nella convinzione di un possibile ritorno agli ideali della guerra partigiana, enunciato da Valiani come impegno a "procedere oltre nel lungo processo della rivoluzione italiana, che è latente nello spirito della nazione". L'errore è di non considerare la sfasatura tra la fase iniziale della guerriglia e quella della politica. In realtà i presupposti rivoluzionari, presenti nella prima fase, si dileguano nella seconda, condizionata da problemi di diversa natura (l'invadente presenza alleata, i costi della ricostruzione) e marcata dalla divisione politica dell'Italia in due spezzoni. Ma nella nuova società ritrova spazio la presenza fascista: un fascismo subdolo e pervasivo, che si infiltra come un parassita nei meccanismi sociali e istituzionali. Ed è questo, nonostante il silenzio degli storici, il segno inequivocabile dei limiti politici della Resistenza. Mi piace concludere questa rassegna citando un brano del Diario partigiano di Ada Gobetti (Einaudi 1956), che registra appunto il passaggio dalla fase della guerra a quella del dopoguerra: "incominciava un'altra battaglia: più lunga, più difficile, più estenuante, anche se meno cruenta. Si trattava ora di combattere non più contro la prepotenza, la crudeltà e Ja violenza, - facili da individuare e da odiare, - ma contro interessi che avrebbero cercato subdolamente di risorgere, contro abitudini che si sarebbero presto riaffermate, contro pregiudizi che non avrebbero voluto morire: tutte cose assai più vaghe, ingannevoli, sfuggenti". Un programma per l'indomani che è anche un presagio dell'avvenire. (Questo testo appare in diversa stesura tra i materiali del "Bollettino dell'Istituto campano per la Storia della Resistenza".) .............................................. N O V I T À 23

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