Linea d'ombra - anno X - n. 71 - maggio 1992

CONFRONTI Numerosi elementi del codice genetico resistenziale si trasmettono nel tessuto istituzionale repubblicano: pensiamo solo al ruolo preminente assunto a partire dalla "svolta di Salerno" dai cattolici e dai comunisti nella gestione politica della guerra partigiana e del dopoguerra; alla riduzione dei contrasti operata da un organismo di gestione consociativa quale il comitato di liberazione nazionale; al divario Nord-Sud come spaccatura tra progressisti e conservatori; alla continuità degli apparati burocratici. Questi elementi sfuggono del tutto a una ricostruzione impegnata a dimostrare l'estraneità del fascismo dalla storia italiana. Una simile impostazione comporta inoltre l'esclusione dalla sua visuale del Mezzogiorno d'Italia, dove l'epopea antifascista non culmina nella Resistenza: l'unico volume dedicato all'insurrezione meridionale, curato da Nicola Gallerano, si intitola emblematicamente L'altro dopoguerra (Angeli 1985). Oltre alla riduzione localistica, la definizione della guerra partigiana in termini generazionali (ossia come una stagione di spensierata incoscienza giovanile) e la prosopopea neorisorgimentale sono altri due aspetti ricorrenti di una lettura della Resistenza fuori dalla storia. Resistenza e Risorgimento secondo Secchia designano il momento "della vittoria sullo straniero, sulla tirannide, della riconquistata libertà e indipendenza del Paese, come la data che segna non la divisione, ma la riconquistata unità del popolo nostro". Naturalmente non è una lettura di questo biennio cruciale in termini idealistici che può fornire una base di indagine alla storia del periodo repubblicano. Le deformazioni compiute in nome dell'epopea resistenziale incidono sulla storiografia successiva; lo dimostra il fatto che, tra le poche ricostruzioni del decennio post-bellico, la migliore sia quella di un inglese, Paul Ginsborg. 4. La prospettiva muta sensibilmente se dall'idea di Resistenza come guerra patriottica ci si rivolge agli altri due versanti di interpretazione proposti da Pavone, di guerra civile e di classe. In questo caso l'apertura di campo è dal dettaglio alla visione d'assieme. Infatti, come hanno osservato in tempi diversi due autorevoli esponenti di parte liberal-democratica, Valiani e Bobbio (l'intervento di Valiani è del 1955, in AA.VV., Dieci anni dopo, Laterza, quello di Bobbio del 1991 in A. Spinelli, Il manifestodi Ventotene, Il Mulino), la successione dei livelli di azione coinvolge con diverse gradualità i vari protagonisti della guerra partigiana. Secondo Valiani i conflitti che animano la Resistenza sono tre: contro l'occupante tedesco, contro il neo-fascismo, contro lo Stato autoritario. Sul primo punto vi era unanimità di giudizio da parte dei resistenti; sul secondo la divisione era tra coloro che identificavano il fascismo con la versione repubblichina e coloro che intendevano invece allargare il conto delle responsabilità all'intero ventennio fascista; sul terzo punto le divergenze tra le diverse componenti politiche apparivano incolmabili. A sua volta Bobbio, riportando le motivazioni della Resistenza italiana su uno scenario più vasto, individua tre moventi della resistenza europea: quello della guerra di liberazione nazionale in nome dell'indipendenza, della guerra contro il fascismo e in genere contro il dispotismo, della guerra per un nuovo assetto sociale contro ogni tentativo di restaurazione dell'antico regime. In questo caleidoscopio di opportunità il grado di partecipazione di ciascun gruppo politico varia a seconda della specifica concezione del proprio impegno antifascista. Ma è solo allargando il discorso dal motivo unificante della lotta (quello della liberazione dall'invasore) ad altri livelli della guerra partigiana che è possibile definire l'insieme delle opzioni politiche che fa da sfondo alla Resistenza. A questo punto converrà di nuovo precisare che le convinzioni ideologiche dei combattenti non sempre rispondono a denominatori d'ordine politico. Il patrimonio più originale della Resistenza consiste proprio nella pluralità di motivazioni dei suoi partecipanti. Una vitalità che è spesso sfuggita al vaglio della storiografia di impronta togliattiana, poco propensa a cogliere il senso delle sfumature (ne è un esempio una ricostruzione per altro di valore come quella di Battaglia), ma che affiora puntualmente nelle memorie resistenziali. Ricordiamo per 22 esempio il significato di emancipazione sociale che assume per le donne la partecipazione alle lotte politiche, come affiora dalle testimonianze orali raccolte da Bianca Guidetti Serra nel volume Compagne (Einaudi 1977). Oppure l'ansia di riscattare l'onore nazionale che talvolta guida l'adesione alla guerra partigiana. Come osserva Massimo Salvadori distinguendo nell'identità del movimento tra forze istituzionali e spinte spontanee: "dove ai collaborazionisti, attivi o passivi che fossero, si oppose la Resistenza, fu sai va l'anima della Nazione che, per quanto in basso fosse caduta, ritrovò in sé la forza di risollevarsi." A conclusione della sua indagine Sai vadori nota anche che la Resistenza "aveva salvato l'anima della nazione; ma era un'anima divisa". E introduce così un argomento delicato della querelle resistenziale. È difficile riassumere con una sola formula il significato di un concetto come quello di guerra civile. Esso può intendersi come una spinta inappagata alla rivoluzione politica (in questo senso, per esempio, Io intende Valiani) oppure essere adoperato per sondare le motivazioni profonde di una nutrita schiera di partecipanti al conflitto partigiano, cioè come discriminante tra l'idea della Resistenza come fenomeno unitario e come ferita nella coscienza nazionale. Ma, soprattutto, il concetto di guerra civile attiene a una diversa accezione delle finalità della lotta: "Lo scopo dell'impostazione politica della nostra guerra partigiana - scrive l'azionista Agosti a Bianco - è la liquidazione, prima che del nazismo e dello stesso fascismo, di tutto quello sporco ammasso di interessi reazionari che sappiamo". È quindi sbagliato ritenere che questa nozione sia stata introdotta dalla storiografia neofascista. La stessa Storia della guerra Civile in Italia (F.P .E. 1965-66), scritta da Giorgio Pisanò per avvalorare questa tesi, contribuisce a dimostrare il contrario. Anche qui, in un'ottica naturalmente rovesciata, la ricostruzione fa perno su un concetto unitario di coscienza nazionale. Il suo denominatore comune è rappresentato dal fascismo mussoliniano.L'unità di intenti si esprime, per la "assoluta maggioranza della popolazione", in uno "stato d'animo d'attesa nel quale la diffidenza verso il nuovo fascismo e l'avversione contro il tedesco occupante si temperavano però in una certa fiducia per quello che avrebbe potuto_fare, di positivo, )"uomo' Mussolini". La tesi di Pisanò tende alla tautologia. Il tentativo di separare le responsabilità tra fascisti e tedeschi e tra fascismo-regime e fascismo-movimento finisce infatti per isolare la figura di Mussolini dal corso degli eventi, in una celebrazione del culto della personalità che ha pochi precedenti persino nella storiografia di regime. I "nemici" sono privati della legittimazione di controparte: il ricorso alla guerra civile si configura come un espediente tattico di una minoranza politica, quella comunista, per impedire a Mussolini, che gode del!' adesione spontanea della popolazione, di riguadagnare a pieno titolo il consenso nazionale. Come si vede è la stessa linea di interpretazione seguita da Pisanò a contrastare con l'impegno di ricostruire "la trama sanguinosa della lotta fratricida". Tutto sommato è proprio la corrente neofascista, malgrado una propensione alla manipolazione dei dati di fatto (una sua costante è rappresentata dal ridimensionamento del ruolo dei tedeschi), a rifiutare con più vigore il ricorso a un concetto di guerra civile, per lo meno nella sua accezione più larga, ossia come contrapposizione di due frontiere ideologiche. Gli stessi storici di questa corrente stentano a definire le linee di un programma fascista, né attribuiscono eccessivo credito alla politica del regime di Salò. Niente meglio dell'utilizzazione dello stereotipo mussoliniano, uno sfiatato ballon d'essai della retorica del ventennio, testimonia il basso profilo ideologico della posizione fascista. 5. Dai fascisti agli antifascisti: il rifiuto del concetto di guerra civile deriva dalla medesima preoccupaztone di concedere una dignità politicaalla controparte. La rimozione ha trovato unappiglio, capziosamente, proprio nell'inconsistenza dell'antagonista fascista (sull'oblio cui è stato condannato questo termine disponiamo di un eccellente articolo di Claudio Pavone del 1986). Ma la guerra civile non rimanda solo a una tecnica militare: costituisce la più consistente motivazione ideologica della guerra al fascismo.

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