CONFRONTI In effetti la Resistenza è essenzialmente la storia dell'otto settembre: di un popolo allo sbando, messo in ginocchio dalla disfatta militare, assediato nel proprio territorio e chiuso nella morsa di due eserciti invasori. La raffigurazione di una condizione di sbandamento come causa iniziale del moto resistenziaJeè centrale in tutta la memorialistica di questo periodo. Diversi diari partigiani (quelli di Livio Bianco, di Ada Gobetti, nel suo genere il più efficace, di Nuto Revelli, di Mario Spinella) hanno focalizzato l'attimo di smarrimento - una fase di sospensione della storia che va dal 25 luglio all'8 settembre, il periodo che intercorre tra la caduta del fascismo, la fine della guerra, l'invasione tedesca e l'inizio di una nuova guerra - e insistito sulla casualità del loro arruolamento nelle file dei partigiani. Così Revelli: "Ho dovuto capire da solo. Sovente ho capito maJe, ho capito a metà. Al 26 luglio si poteva anche scegliere sbagliato. Se mi picchiavano, se mi sputavano addosso, forse sarei passato dal]' altra parte, con i fascisti, con le vittime del momento. Oggi sarei con le canaglie, con i barabba, con le spie dei tedeschi". La labilità del confine di scelta dell'italiano del 26 luglio e la stessa scanzonata spontaneità delle prime bande partigiane sono state deliberatamente ignorate dalla storiografia ufficiale. È significativo che le più efficaci ricostruzioni dello stato d'animo resistenziale provengano dal versante narrativo. Ciò nondimeno persino un intellettuale poco allineato come Calvino in un articolo del '49 poteva imputare a questa letteratura l'incapacità di giungere a una rappresentazione epica e corale degli eventi: ciò che la Resistenza, appunto, non era stata._Niente più della retorica è estraneo allo spirito della Resistenza, come dimostra anche la recente (e utilissima) pubblicazione presso un piccolo editore torinesedell 'epistolario di Giorgio Agosti e Livio Bianco (Un'amicizia partigiana, Meynier 1990): un nudo spaccato di vita partigiana. L' epicità resistenziale è prodotta in effetti da un fraintendimento successivo, che accomuna le principali correnti storiografiche e da cui derivano due categorie: del lungo fascismo e della lunga Resistenza. Secondo questa prospettiva, la guerra partigiana assurge a fase culminante di una lunga battaglia antifascista avviata nel 1919 e conclusa appunto nel '45 con l'estirpazione dal suolo italiano del germe del fascismo internazionale (per un'enunciazione di questo paradigma si può consultare la Storia della Resistenza di Secchia e Frassati, Editori Riuniti 1965). La continuità del fascismo serve a legittimare la lotta contro il nemico interno senza dover ricorrere all'insidioso concetto, aborrito soprattutto dalla storiografia comunista, della guerra civile. La Resistenza attinge infatti la sua legalità ai principi del diritto liberale usurpati dal colpo di mano fascista del '22. Ma in questo schema il fascismo non è più un nemico interno: è un nemico internazionale che rivive sotto mentite spoglie nella Repubblica di Salò. La Resistenza si legittima così come un movimento di restaurazione legale. Una conseguenza non secondaria di questa lettura è il ridimensionamento del ruolodell 'esercito alleato. Secondo i postulati della nota teoria elaborata da Cari Schmitt, il partigiano è un combattente irregolare che per legalizzare la sua posizione è costretto ad appoggiarsi a un esercito regolare. Nella prospettiva di interpretazione degli storici italiani questo ruolo di sostegno è posto quasi sempre in secondo piano, mentre l'accento cade generalmente sui contrasti tra il comando alleato e la direzione del CLN. Tra intralci e impedimenti portati alla sua azione dal l'esercito alleato, il partigiano figura come il principale protagonista della guerra di liberazione dall'invasore nazifascista. Va detto che questa convinzione si è giovata della mancanza nel nostro paese di una seria tradizione di storiografia militare. 3. Il ricorso a una datazione del movimento di Resistenza secondo lo schema della lotta ventennale al fascismo non appartiene alla sola storiografia comunista, ma è fatto proprio anche dagli storici di area liberal-democratica. Su questo tema disponiamo di due interventi, uno di Piero Calamandrei del 1954 (raccolto in volume in Uomini e città della Resistenza, Laterza 1955), L'altro di Roberto Battaglia del '59 (in "Il movimento di liberazione in Italia" n. 57): basta porli a confronto per cogliere le analogie di due posizioni teoricamente distanti. Battaglia contesta la tesi volta a privilegiare nello spirito della Resistenza i caratteri di spontaneità. Registrando il delinearsi nel dibattito storico in tre correnti di ispirazione cattolica, democratica e marxista, egli osserva come queste posizioni siano accomunate dalla medesima esigenza di un inquadramento della storia della Resistenza nella storia pm generale dell'Italia contemporanea, in una ricostruzione a ritroso che individui i presupposti del moto resistenziale nel lungo letargo del ventennio dittatoriale. CaJamandrei focalizza il suo discorso sulla definizione di fascismo come negazione della civiltà. Secondo lui la Resistenza si svolge sotto il segno di una spontaneità "di carattere morale e religioso" e dunque non è attribuibile a questo o quel partito. Tuttavia la sua spinta non si riduce all'azione militare del periodo 8 settembre '43/25 aprile '45: le motivazioni profonde della Resistenza sono inscritte nella storia dell'antifascismo italiano. L'esigenza di collocare la Resistenza in un ciclo storico di lunga durata risponde in questo caso a due istanze diverse: i comunisti sono impegnati a evidenziare il loro ruolo di partito guida, gli azionisti sembrano interessati a sminuire il peso delle connotazioni politiche, rivalutando invece la più astratta categoria di un carattere nazionale dell'antifascismo. Dall'atteggiamento degli storici comunisti e azionisti trapela comunque la legittima aspirazione a salvaguardare una posizione di egemonia nel fronte antifascista, conquistata a prezzo di duri sacrifici nel periodo della clandestinità. Non c'è dubbio che sia stata proprio la credibilità acquisita come avversari del fascismo ad aver concesso ai due raggruppamenti la possibilità di giocare un ruolo determinante nella guerra di liberazione nazionale. Questo merito tuttavia si riflette in modo negativo sull'impostazione del discorso storico, sminuendo paradossalmente il significato di tanti sforzi. Esaltando l'aspetto moraJe della lotta aJ fascismo a danno di quello ideologico e sto1ico-militare si elude infatti il nodo politico della guerra partigiana. Lo schema antifascismo-Resistenza-guerra di liberazione induce, un po' crocianamente, a considerare la Resistenza come una parentesi più che come una tappa epocale della storia dell'Italia contemporanea. Una lettura del tutto sviante, poiché è proprio dalla Resistenza che prende forma la storia politica dell'Italia repubblicana. Partigiani fiorentini, 1944. 21
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