Linea d'ombra - anno X - n. 71 - maggio 1992

CONFRONTI La Resistenza come guerra civile A partire dal libro di Claudio Pavone Paolo Varvaro Il clamore suscitato negli ultimi mesi dall'uscita del volume di Claudio Pavone sulla Resistenza ( Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Bollati Boringhieri 1991), del tutto insolito per un saggio di storia, si presta a due considerazioni a prima vista contraddittorie. Al di là dei suoi notevoli meriti, l'immediata fortuna di questo libro dimostra come l'attenzione per la Resistenza non ha ancora superato la soglia generalmente riservata alla conoscenza del passato. Questo attualismo tuttavia non agevola il compito della ricerca storica. La mancanza di un effettivo distacco dagli eventi che l'hanno determinata fa sì che il tema, lo dimostrano le polemiche degli ultimi tempi, sia ancora confinato in una dimensione di tipo politico. Radicata nell'immaginario collettivo sotto forma di epopea, la Resistenza stenta cioè ad acquisire una sua precisa identità storica. Né il libro di Pavone, per il taglio particolare e tutto sommato "monografico" che presenta, può colmare questa lacuna. Il problema di una messa a punto storiografica è stato avvertito sin dall'immediato dopogue1Ta.In diverse lettere dall'America che precedono il suo ritorno in Italia (il brano che riporto è del '47) Salvemini indicava la necessità di un lavoro sistematico sull'opera dei partigiani italiani, un lavoro ritenuto "indispensabile e urgente perché nessuno riesce ad avere, o a dare, informazioni sicure su quel movimento, che pure fu il più importante dell'Europa". Una ricostruzione complessiva, tranne un'eccezione, non è stata ancora portata a termine. L'eccezione è costituita dalla Storia della Resistenza italiana di Roberto Battaglia (Einaudi 1953): un'indagine di notevole valore per i suoi tempi, ma pubblicata nel 1953, elaborata quindi con materiali pionieristici, priva del supporto delle fonti di archivio e inevitabilmente condizionata da un deformante riflesso politico, che però come si è detto non è stato superato dai lavori successivi. Questo articolo si propone appunto di esarninarelalunga scia di questa deformazione, attraverso un sommario excursus sulla produzione degli ultimi trent'anni che cercherà di mettere a fuoco la natura politica e storiografica del pregiudizio resistenziale. 1. OccoITepremettere che I a I imitata produzione di genere resi stenziale rischia di rendere poco significativo il confronto dei testi. Negli ultimi anni la storiografia della Resistenza si è orientata soprattutto su ricerche di carattere regionale, secondo un vizio congenito degli storici italiani di evitare il confronto con lavori di sintesi generale, che è terreno riservato, anche per la storia italiana, a studiosi di scuola anglosassone. Ancor o gi manca una approfondita indagine sul contributo azionista e cattolico alla guerra partigiana (la Storia del Partito d'Azione di De Luna, Feltrinelli 1982, privilegia esclusivamente la prospettiva politica). Uno degli stereotipi più duraturi assegnato al movimento di Resistenza, nella percezione collettiva di questo fenomeno che ci è stata fornita dalle opere di carattere generale, è quello di un fenomeno politico unitario. Un preconcetto che nelle sue diramazioni ha costituito in questi ultimi quarant'anni la giustificazione di un intero sistema politico: la definizione di "arco politico costituzionale" - che designa le forze politiche legittimate a governare - discende appunto dall'idea della Resistenza come esperienza di lotta unitaria. In realtà nessuna guerra più di quella partigiana comporta la disintegrazione di una prospettiva di azione unilaterale, che è tipica invece della mentalità militare. La guerra partigiana è combattuta su un campo aperto da un esercito irregolare; l'adesione a questo tipo di combattimento è individuale e rimanda a un insieme di motivazioni e di obiettivi difficilmente riducibili a unità. Per rendersene conto basta riprendere alcune delle Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana (Einaudi 1954), che resta ancor oggi uno dei migliori contributi alla conoscenza del periodo. 20 Limitiamoci a tre posizioni. In punto di mo1te il comunista Eusebio Giambone mette in risalto la condizione di ineluttabilità della lotta di classe: "Essi credono con le nostre condanne di arrestare il corso della storia; si sbagliano! Nulla arresterà il trionfo del nostro ideate ...". L'azionista Pedro Ferreira desidera invece essere ricordato come uno che "è morto per la Patria alla quale ha dedicato tutta la sua vita( ...) per l'onore perché non ha mai tradito il suo giuramento( ...) per la libertà e la giustizia che trionferanno pure un giorno quando sarà passata questa bufera ...". li militare Domenico Quaranta si rammarica di non aver potuto "continuare a servire la mia Patria e il mio Re". Le motivazioni che spingono al sacrificio un comunista, un azionista e un militare sono dunque differenti. Per il comunista il riscatto nazionale è affidato al compimento del corso della storia, per l'azionista al proseguimento della lotta di liberazione come lotta per un nuovo ordine sociale, per il militare al rispetto dell'ideale di fedeltà monarchica. Sul piano degli studi storici l'insieme delle motivazioni è stato generalmente ricondotto a un denominatore d'ordine politico. Le diverse tendenze hanno trovato una forma di espressione comune negli organismi di rappresentanza politica e militare della Resistenza, i CLN, ai quali spetta il compito di appianare i contrasti nella sostanziale unità dell'obiettivo resistenziale, che è quello della liberazione dall'invasore nazifascista. Secondo questo schema di interpretazione la Resistenza non può essere intesa che con un unico significato: di guerra di liberazione. Il merito principale di Pavone consiste nell'aver rifiutato un metro di giudizio così rigido. Sin dà! titolo (che presenta la Resistenza, provocatoriamente, come Una guerra civile) e poi attraverso l'estrema dovizia di analisi con cui ne esamina le diverse componenti (segnalo soltanto, senza entrare nel merito, le pagine dedicate al confronto tra mentalità urbana e rurale all'interno dell'esercito partigiano), Pavone rovescia lo stereotipo unitario. Egli riconsidera la vicenda resistenziale nei suoi tre possibili esiti: di guerra patriottica, civile e di classe. In verità già ai primordi della storiografia della Resistenza si era fatta strada l'esigenza di una distinzione dei diversi filoni da cui si dipana l'esperienza partigiana. È del 1966 - ma sembra di oggi - I' osservazione di Quazza secondo la quale, per comprendere la Resistenza "in tutta la ricchezza dei suoi caratteri e delle sue implicazioni", è opportuno andare alla ricerca "contro la sua unità complessiva, delle sue distinzioni, delle sue divisioni, delle contraddizioni, insomma, da cui nasca quell'unità, che è unità dialettica, dinamica e non statica". Si tratta semplicemente di capire perché questo suggerimento non sia stato sviluppato prima. Né è il caso di soffermarsi sulle troppe omissioni incontrate nel corso della ricerca. li grottesco ritegno mostrato dagli storici italiani nei confronti di alcune pagine della gue1Tapartigiana riguardanti episodi di regolamenti di conti tra le bande e di faide interne (venuti invece alla luce riguardo alla resistenza francese e jugoslava e, prima di essi, alla guerra civile spagnola) dimostra come un ideale non possa ammettere di avere scheletri nell'armadio. 2. La concezione unitaria della guerra partigiana è contestualizzata nell'idea della Resistenza come ritorno. L'immagine della Resistenza come Odissea è ripresa in un brano di Calvino citato da Pavone ad ape1tura del suo libro, che trascrivo integralmente per i numerosi riferimenti che presenta con il n'ostro discorso: "Cos'è infatti l'Odissea? È il mito del ritorno a casa, nato nei lunghi anni di 'naja' dei soldati po1tati a combattere lontano, dalle loro preoccupazioni di come faranno a tornare, finita la guerra, dalla paura che li assale nei loro sogni di non riuscire a tornare mai, di strani ostacoli che sorgono sul loro cammino. È la storia degli otto settembre, l'Odissea, la storia di tutti gli otto settembre della Storia: il dover tornare a casa su mezzi di fortuna, per paesi irti di nemici".

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