CONFRONTI della poesia greca e del paganesimo antico che si conosca nell' Italia moderna: una rinascita senza intenzione culturale, e da cui è assente la più piccola traccia di archeologia. Questo "paganesimo" di Penna vuol dire anche, però, che la realtà non si può asservire e manipolare. La realtà non è mai al servizio della trasgressione. Le cose della natura sono indomabili. La potenza dell'eros può farle esistere per noi così come reaimente sono, non può mutarle. Penna è un poeta realistico, non magico, né orfico. Trasformare la realtà per Penna, prima che volgare, è impossibile: Mutare il verde prato in un giuoco proibito. Mi ci sono provato. Non ci sono riuscito. Il potere della-poesia-e-del sesso è illusorio ed è liquidato con i soliti quattro versi. La poesia non fa miracoli. Il solo miracolo che le è possibile è quello di fare in modo che "il verde prato" sia quello che è. La potenza dell'eros e della poesia in Penna è di denudare la parola e la cosa. Le visioni di Penna sono allucinazioni realistiche. La loro energia può apparire simile a quella di una violenta rimozione eufemistica, come credeva Pasolini: invece è solo la rimozione del superfluo, del secondario, di ciò che è derivato per mediazioni culturali dalla percezione primaria. La lingua di Penna si spiega come lingua di realtà, anche se lingua non mimeticarnente realistica. La realtà di cui parla (a chi? a nessuno) vale di per sé: non è la realtà stabilita dal patto sociale. Il solo patto è quello fra lingua comune e realtà, la sola socialità della lingua di Penna è la socialità svuotata di se stessa attraverso un'ascesi erotica (ascesi come riconoscimento della realtà assoluta dell'eros). È una lingua di comunicazione usata per comunicare con la vita, non con un pubblico. Treni, biciclette, tute da operai, strade, orinatoi sono eterni come nell'eterno ritorno di un paradiso transitorio. C'è però un'esclusione che agisce mostruosamente: non si nasce e non si muore nella poesia di Penna. Questa è l'oscenità che Penna non sa mostrare. Ma la nascita e la morte sono percettivamente reali per un corpo vivente? Se ne può avere percezione, esperienza? Nascita e morte sono eroticamente inaccessibili. Come la storia, sono solo pensabili. E Penna non pensa al di fuori del percepibile: sogno, ricordo, o ricordo di un sogno. Stati in cui una mente corporea si appropria di quanto ha percepito e lo metabolizza. La mia poesia non sarà un giuoco leggero fatto con parole delicate e malate (sole chiaro di marzo su foglie rabbrividenti di platani di un verde troppo chiaro). La mia poesia lancerà la sua forza a perdersi nell'infinito (giuochi di un atleta bello nel vespero lungo d'estate). La poesia di Penna dunque rifugge da "parole delicate e malate", ha invece bisogno di essere qualcosa come una prestazione atletica, uno spreco energetico senza scopo. Forza e perdita di forza. Restituzione di energia e bellezza al vuoto senza limite. Solo di "alba" e "vespero" si può parlare. Qui siamo, è vero, nell'astrattezza un po' sbiadita della dichiarazione (dichiarando di voler lanciare "la sua forza", e dichiarandolo nel verbo al futuro, così poco penniano, Penna perde già un po' della sua forza). Ma a volte la religione cosmica di Penna prende la forma di una parabola onirica. Era l'alba su i colli, e gli animali ridavano alla terra i calmi occhi. Io tornavo alla casa di mia madre. Il treno dondolava i miei sbadigli acerbi. E il primo vento era su l'erbe. Altissimo e confuso, il paradiso della mia vita non aveva ancora volto. Ma l'ospite alla terra, nuovo, già chiedeva l'amore, inginocchiato. Cadeva la preghiera nella chiusa casa entrò odore di libri di scuola. Navigavano al vespero felici gridi di uccelli nel mio cielo d'ansia. È un testo che fa parte di Poesie ( 1938-1955). Tre lente strofe di endacasillabi senza rime, in cui si trascrive con abbandono, ma anche con ansiosa attenzione, il ricordo di un viaggio di ritorno: un "al di qua" della vita in cui ritualmente viene fondata la religione di un'intera vita. Siamo in una zona di rivelazione. Cioè, come sempre, fra veglia e sonno, appena fuori e ancora dentro un sogno. L'evento è ricordato con trasognata lucidità. Senza lo scatto secco o il gioco cullante delle rime, qui Penna lavora dentro un percorso a spirale, che non cerca soluzioni rapide e forti, ma procede (cosa rara in lui) nell'indagine intorno alla rivelazione di un archetipo. Ancora una volta, l'alba, l'inizio ciclico, la luce che torna sul mondo. Un mondo popolato anzitutto dalla sua sola popolazione congrua e degna: gli animali. Il loro rito aurorale di ringraziamento ha la forma di una preghiera fisica. Non tanto riaprono gli occhi per guardare il mondo: ma li restituiscono alla terra, loro unica madre e padrona. La loro "calma" (termine-chiave di valenza panica in Penna) è nella loro ubbidienza alla legge terrestre che li governa. E come loro, l'autore sta compiendo un rito di ubbidienza: torna alla casa materna. Ancora e come sempre, un treno: abitacolo pubblico in movimento, il veicolo del moderno nomade, un "luogo comune", in cui si dorme e ci si risveglia, e dove la grazia del caso può sempre portare incontri. È questo treno che ambienta la descrizione di un rito di appartenenza alla sovrana legge terrestre quasi dentro un film neorealista. Colli, erbe, animali, madre. Ma il personaggio è un ragazzo che sbadiglia in un treno, tornando a casa, dove i suoi libri di scuola hanno ancora il loro odore. Il sublime è ambientato realisticamente e famigliarmente. Nella stessa poesia in cui domina, come una vertiginosa volta affrescata, quell'"altissimo e confuso" paradiso su cui apre la seconda strofa, c'è anche la casa materna, c'è una stanza di scolaro, e vediamo perfino il protagonista inginocchiato. Non per pregare il dio cristiano, ma per chiedere alla terra l'amore. Qui Penna si rappresenta nell'atto di fondare la sua religione. Che certamente prevede un paradiso, come quella cristiana, ma tale da essere riservato solo a lui ("il paradiso - della mia vita"), esclusivo e insignificante, terribile come una divinità senza volto. Forse solo nell'ossessione erotica, nell'eros come malattia, la natura contende alla società il potere di farsi ubbidire. Non è un gran problema, comunque. O meglio, Penna lo sa, non è un problema di grande interesse pubblico: Il problema sessuale prende tutta la mia vita. Sarà un bene o sarà un male mi domando ad ogni uscita. 17
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