Linea d'ombra - anno X - n. 71 - maggio 1992

CONFRONTI Sandro Penna o I' altrove Alfonso Berardinelli Non è così, ma facciamo il caso, per assurdo, che io debba assolutamente parlare di Sandro Penna. Che cosa dire? Avrei paura, mi sentieri superfluo. Sandro Penna è uno dei pochi poeti italiani del novecento che parlano davvero da sé. Non che sia facile capire. Probabilmente Penna è un mistero insondabile. Che la chiarezza di Penna sia apparente, ipnotica e piena di misteri, lo si è detto in vari modi. Non si può neppure cominciare a parlare di lui senza dire e ripetere questo. Mistero in piena luce, mistero della chiarezza. Una chiarezza che tiene a distanza i critici, che non li incoraggia. La bibliografia critica su di lui è tuttora esigua (anche se verrà prossimamente arricchita dalla pubblicazione degli atti di un convegno tenuto a Perugia circa un anno fa). Ma questo non mi pare un grave danno. Penna è spietato con chi si mette a parlare di lui pensando di cavarsela facilmente con le armi della critica e con le armi della complicità. La poesia di Penna non ha bisogno di essere studiata per essere letta, e non ha bisogno di complici. La diversità di Penna ha questo di speciale: che non può essere messa in comune, perché diventerebbe comune. Nella sua assoluta, irriducibile singolarità, dura come un diamante e priva di stravaganze, Penna è inavvicinabile. Sono contento, perciò, di non dover scrivere un saggio critico su di lui. Sarei sconfitto in partenza. Mi fermo ai preliminari, dando per acquisito che la maggior parte delle cose che sono già state scritte su Penna sono giuste, interessanti, accettabili. E non si richiede che se ne dicano altre. Chi si mette a parlare di Penna deve imparare subito una cosa essenziale: che i commenti e le analisi possono forse servire a chi li scrive, non certo all'autore e alla sua poesia. Nel secolo della _poesiaoscura e della sovraP.produzione critica, Penna incoraggia la discrezione e il silenzio con la sua scandalosa, ossessiva, sbrigativa semplicità. La grandezza di Penna, di cui ha parlato insistentemente Cesare Garboli (il suo maggiore commentatore, con Pasolini), credo che vada misurata anzitutto su questo piano. Direi anzi che la grandezza di Penna è difficilmente misurabile, perché le unità di misura con cui misurarla dobbiamo inventarle, metterle a punto, immaginarle. La grandezza di Penna è un mostruoso fenomeno di cultura prima ancora che di poesia, ma realizzato con i soli mezzi della poesia. In ognuno dei suoi versi si celebra sommessamente la gaia apocalisse di una storia che scompare, si mette da parte. In questo nella poesia di Penna c'è molto di italiano (parlo di un'Italia "essenziale" e scomparsa, quella che va dal XIII al XVI secolo). C'è molto, cioè, di semidivino: un'indifferenza sovrana alle vicende del mondo storico, una irradiante immobilità, una vita vissuta propriamente né in cielo né in terra, o in tutti e due i luoghi, in un presente fatto di estatici dormiveglia, dove non ci si può illudere mai perché tutto, il prima e il dopo, è perfettamente visibile, dato una volta per sempre nella sua inflessibile transitorietà. Da dove viene Penna? Ecco il primo e forse il solo vero problema della critica. Un problema, credo, difficilmente risolvibile. Non è infatti che la poesia di Penna non abbia un passato e una tradizione: è che la tradizione italiana viene attraversata fulmineamente da cima a fondo, e scavalcata, ma come in sogno, - senza che niente di essa vi sia più riconoscibile. È questa la ragione per cui stabilire debiti, individuare fonti, derivazioni, calchi, prestiti è imbarazzante, incongruo e impreciso: Pascoli? D'Annunzio? Saba? Metastasio? Leopardi? Niente di tutto questo in verità c'entra con Penna. Che può prendere dovunque senza che si veda, perché la sua natura-cultura lo colloca fulmineamente altrove, al di là e al di qua della comunità umana, della storia, e quindi anche della tradizione poetica. Direi perfino che studiare Penna è imbarazzante e incongruo. È un poeta che fa sempre un po' vergognare chi lo studia. Si può solo portarselo dietro, leggerlo e rileggerlo, citarlo o ignorarlo. Invece più lo si studia e più diventa inaccessibile, frustrante, povero. Di che cosa è fatta la lingua di Penna? Di che cosa è fatta la sua metrica? E la sua sintassi? E il suo sistema lessicale? È facile vedere e mostrare come procede. Ma più si raccolgono dati e più si resta a mani vuote. Penna non è un poeta per studiosi. Il solo rischio è che passi per un poeta "di categoria omosessuale". Ma anche questo è impossibile. La diversità di Penna in questo è mostruosa, non ha bisogno di comprensione. Il più famoso dei suoi epigrammi rende ridicola ogni appropriazione e complicità corporativa: Felice chi è diverso essendo egli diverso. Ma guai a chi è diverso essendo egli comune. Ciò che è comune, comunicabile, condivisibile, commerciabile, comunitario è fuori degli interessi di Penna. Siamo al polo opposto rispetto a Baudelaire, il quale, nella sua tormentata stravaganza, sentì il bisogno di scrivere un "Avviso ai noncomunisti: Tutto è comune, perfino Dio". Per Penna si direbbe che Dio sia così poco interessante proprio perché comune. La chiarezza di Penna è sempre beffarda. Si può dire tutto con la massima chiarezza, perché di essere capiti non c'è pericolo. Come sono esistiti paesi e culture della modernità - che hanno inventato, cioè, la modernità (Inghilterra e Francia anzitutto) -così ci sono ancora paesi (quasi tutti gli altri, esclusi gli Stati Uniti) della modernizzazione: dove la modernità è arrivata da fuori, è stata studiata e assimilata, o trapiantata con una certa goffaggine e violenza, su tradizioni magari in declino, indebolite, andate a male, ma tuttavia refrattarie a prendere la forma offerta dai nuovi modelli. Così i poeti refrattari alla modernizzazione più o meno coatta, come Saba e Penna anzitutto, hanno incontrato particolari resistenze prima di essere capiti, accettati in una cultura letteraria che aspirava a liberarsi in una tradizione poetica lunga e certamente ingombrante come quella italiana. Una tradizione scolasticamente o lussuosamente cadaverica (in Carducci e D'Annunzio) o infinitamente agonizzante, anche quando di rinnova (in Pascoli). Sandro Penna parte da un non sapere e non voler sapere a che punto sia il calendario della storia: e se sia o no ancora possibile scrivere in un modo o in un altro. Il suo è un non voler sapere a che punto siamo nel corso della storia: che divora tutto, ma che ha anche il difetto, agli occhi di Penna, di essere una costruzione interamente umana, un artefatto morale e sociale.

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