Linea d'ombra - anno X - n. 70 - aprile 1992

1 6 VISTA DALLA LUNA <l'.'. a<: a<: w E- <!'. ...J mente crea un immagine diversa di sé anche s_eha la faccia bianca. Cosa pensi delle posizioni di padre Gheddo edella rivista "Mondo eMissione", secondo le quali si tratta invece proprio di sradicare la cultura locale, legata alla economia di pura sussistenza e a un tempo ciclico e ùnmobile, e invece introdurre dall'alto la religione monoteistica, che mette in moto il tempo efa da motore di sviluppo? Bisogna premettere che benché si sia arrivati a considerare queste due visioni come contrapposte, c'è stato molto fraintendimento. Comunque penso che padre Gheddo, non avendo mai vissuto per anni in un contesto culturale diverso, non possa rendersi conto che non è vero ciò che dice. Che invece è fondamentale negare il presupposto eurocentrico o la pretesa di essere noi ancora una volta quelli che insegnano, quelli che dettano i ritmi della storia, che impongono le regole e il modo di costruire la società: chi parte da questo punto di vista, come è il suo caso, certo poi è portato a certi eccessi teorici. Chi invece vuole vivere - e forse anche morire - e consumarsi in queste realtà rispettandole, non può semplicemente concepire quel discorso lì. Ora, questo significa avere un bisogno enorme di pazientare, perché tu rischi di lasciar passare tempi che nella nostra logica sono assolutamente inutili. Per esempio, tu identifichi il colpevole di una certa situazione e dici: facciamo pagare lui e sia finita. No, c'è bisogno invece di consultare tutti gli anziani, di sedere insieme magari spendendo tre giorni invece di un'ora. Però è il processo che ti porta al consenso. Ora che poi i tempi vengano sveltiti attraverso un processo di sviluppo, questo è un conto. Ma che ci sia un intervento esterno, questo è sbagliato, anche perché è il tipo di intervento che non viene accettato, e che provoca anzi forti reazioni negative. Nell'ambito della missione, il problema diventa quello della costruzione di una chiesa locale: arri viamo noi e cerchiamo di velocizzare il processo di creazione di comunità cristiane eccetera, però occorre fare attenzione perché nel momento in cui le responsabilità vengono assunte dalla realtà locale, se non c'è stato i I processo giusto di crescita, cioè se si è fatto fare a quella comunità il passo più lungo della gamba, tutto crollerà. Se cediamo, va tutto a catafascio. E siccome il fine ultimo della missione, paradossalmente, è proprio quello di rendersi inutili, non necessari, ecco allora che va usata una metodologia tutta particolare. Quella che propone Gheddo è invece coincidente con le visioni più comuni di colonialismo. Resta il fatto che uno dei luoghi comuni più spesso espressi sugli africani è: questi non sono capaci di lavorare, non hanno voglia di lavorare, il problema è insegnar loro a lavorare perché l'africano è di natura pigro. Commento magari sostenuto anche da argomentazioni "alte": sono abituati ali' economia di sussistenza, non accumulano, non pensano a migliorare, eccetera. Che cosa si risponde a questo commento? Di fatto quando tu organizzi un progetto e questo non va in porto perché loro non si muovono molto, da un punto di vista umano e immediato e personale ti viene la tentazione di fare questi discorsi. Ciò che è grave è quando diventa una catego1ia mentale da cui non esci più; perché non è vero, se guardiamo davvero lo spazio che un africano dà al lavoro, il tempo che una donna spende giorno e notte. Però, lo fa sempre con quello stile, che a me piaceva anche: erano disposti a mangiare una pannocchia in meno, ma volevano avere la piena coscienza che erano loro a decidere come spendere il proprio tempo. E questo è importante. Questi sono discorsi che poi faceva anche il governo etiopico: per farli lavorare l'unico sistema è forzarli, sostenevano, e quindi creare orari di lavoro. In questo modo in quindici anni hanno distrutto il paese, perché la gente non va presa così. Erano categorie in parte imposte dall'esterno, dai sovietici, per accelerare lo sviluppo eccetera. Ma la gente è furbissima: trova mille modi di aggirare gli obblighi. Arriva poi il momento in cui ci lasciano la pelle, perché viene anche esercitata violenza: ma in definitiva la gente riesce a vincere questa battaglia, c'è questo aspetto di capacità di attesa. In Etiopia tutti andavano alle piantagioni, costretti la mattina. Ma se per caso non trovavano l'aguzzino che prendeva i nomi, subito scappavano tutti via, a centinaia, andavano a casa e restavano lì. Quando l'aguzzino incazzatissimo andava a cercarli uno per uno, si difendevano dicendo che loro c'erano, che l'avevano aspettato ma lui non c'era. Quella serie di astuzie che nascono dalla povertà. Ma quel mito dell'africano che non ha voglia di lavora.re, noi missionari dovremmo essere gli ultimi a esporlo in modo così sfacciato. Dovremmo essere molto più attenti. L'Africa ha visto negli ultimi anni una grande esplosione di religiosità, che si esprime anche con nuove forme di cristianesimo, più o meno importanti, magari piuttosto strane. Sono sincretismi e novità adesso ingrande fermento proprio perché nelle periferie c'è una ricerca di luoghi di aggregazione, di comunità, come hai detto tu. Ho visitato Korokocho, laperiferia di Nairobi dove Zanotelli ha la sua missione. Mi ha colpito vedere lungo la via principale almeno dodici chiese diverse in meno di un chilometro. Il missionario comboniano che rapporto ha con questa realtà? La mia impressione è che il rapporto sia conflittuale. Non si arriva allo scontro, ma è certo che le chiese vengono viste in chiave negativa dalla maggioranza dei missionari. In questo contesto credo che noi dovremmo avere un atteggiamento più serio. Perché è vero che sono in genere sette piuttosto fondamentaliste, legate alla figura del leader, non strutturate e spontaneiste, per cui aggregano gente che ha un certo background: gli scontenti, i soli. Però hanno anche il grande valore, se vogliamo essere onesti, di mettere in crisi proprio il nostro lavoro. Invece di dire: quelle lì vanno abbattute, noi dovremmo riflettere su I MISSIONARI cosa loro stanno dicendo alla gente. Non nascono e si moltiplicano per nulla, sono l'indice concreto di un desiderio di soddisfare un bisogno di vivere la fede che altrimenti la gente non trova nelle chiese istituite, cattoliche o protestanti. Anche se è poi negativa la struttura settaria di queste chiese indipendenti per cui chi entra fa parte dei "sai vati" eccetera. Mentre rispondono senz'altro all'esigenza di chi non trova risposte all'interne delle chiese tradizionali. E ci mettono in crisi. Nei confronti della religiosità specificamente tradizional.e, legata all'appartenenza etnica, ancora così presente nelle peri;ferie: riti di iniziazione alla pubertà, matrimoni, o anche sacrifici animali, medicina "tradizionale" eccetera, voi come vi comportate? Si rientra nel discorso più vasto dell'inculturazione. Io penso che oggi ci sia un atteggiamento di fondo molto più attento verso le religioni tradizionali che non verso le sette, perché nelle religioni tradizionali si ritrovano gli elementi di cui parla anche il Vaticano Il, che possono incontrarsi pienamente col Vangelo, mentre nelle sette c'è la tendenza alla strumentalizzazione anche a scopi semplicemente politici. Le religioni tradizionali sono secolari espressioni pure, e c'è molto terreno comune, anche se quando si arriva a certi elementi di cultura come la clitoridectornia, elementi che vanno chiaramente contro l'integrità fisica delle persone, ecco, allora sono elementi su cui va posto un punto di domanda. Questa credo che sia una barriera da affrontare, perché il discorso è fino a che punto va recuperata e fino a che punto va criticata? È difficile giudicare, ma bisogna farlo. Per esempio tra i gruppi etnici con cui lavoravo in Etiopia c'è ancora una fortissima violenza esercitata sulla donna. La ragazza che viene rapita bambina eccetera. E il discorso evangelico mette in crisi ciò che non è umano di queste culture. Io sono sempre stato spietato nella mia critica, in questi casi. Anche all'interno delle comunità cristiane che ancora si lasciano attrarre dai soldi che gli danno in cambio di una figlia sposa a un musulmano, che magari ha già altre due mogli: noi siamo sempre intervenuti in modo feroce. Nei confronti della poligamia tradizionale, al di là di quella islamica, che posizione prendete? Non si creano forzature, a quel livello. La metodologia nostra era di lavorare con la realtà così com'era, anche se poi c'era chi faceva la scelta chiara di vivere la sua tradizione con le sue mogli. Quando magari una delle mogli cominciava ad avvicinarsi, aveva il problema di 'coscienza. Si tratta di avere libertà di giudizio volta per volta. Se all 'interno della famiglia c'era chi sceglieva di avvicinarsi a Cristo, allora si facevano i passi necessari, altrimenti l'unica preoccupazione era di garantire i diritti delle donne. Se uno con tre donne voleva farsi cristiano, gli si diceva di no. Se poi cacciare via due donne significava metterle in miseria, allora si chie-

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