I MISSIONARI sulla costruzione di grosse strutture, anche a livello qualificato. Il servizio è in funzione di una comunità che resta povera, un desiderio di identificazione con i poveri, negli aspetti più umani e materiali. Loro fanno riferimento a quello che definiscono il modello di Nazareth, cioè il periodo vissuto "nascostamente" da Gesù. Al punto che la loro presenza "nascosta" diventa quasi invisibile, come un po' misteriosa. Lavorano spesso in ambienti metropolitani del sud, ma anche del nostro mondo. Trovi loro comunità anche a Roma o Milano, o centri di assistenza ai malati di AIDS. Quanto a noi comboniani siamo in capitolo proprio ora e uno degli aspetti che emergerà sarà proprio quello dell'analisi del modo nuovo di fare missione, condizione che ti porta a non creare appunto quel baratro. E questa dovrebbe essere la prospettiva su cui indirizzare i giovani alla missione. Ma non è ancora così. Si stanno solo ora creando gli spazi perché all'interno degli istituti missionari ci sia realmente la possibilità di scegliere le forme diverse di missione e io conto sul fatto che i giovani siano in grado di sostituire lo stile tradizionale. O quanto meno aiuteranno chi, anche fisicamente, non riesce a sopportare scelte radicali anche dal punto di vista materiale. Ma in un quadro di missione più tradizionale, tu che consigli daresti a un giovane missionario che si trova difronte al baratro? lo posso immaginare che tu stesso ti sia trovato a vivere una situazione tradizionale. Lì che strumenti ha il missionario che cerca di superare il baratro? È difficile generalizzare. Non si possono dare risposte applicabili ovunque. Però io ho un'esperienza abbastanza illuminante al riguardo. In Etiopia ci trovavamo di fronte a un governo marxista leninista totalmente incapace di gestire - non necessariamente per sua colpa- le scuole e i servizi, per cui aveva posto come legge per consentire la nostra presenza il fatto che noi costituissimo delle strutture scolastiche. E io mi sono trovato proprio in quel dilemma: o rinuncio a essere presente perché il tipo di missione che voglio fare è differente, e a questo io ho sempre creduto, oppure sono costretto ad accettare di costituire la scuola e fare da direttore, con tutte le conseguenze automatiche di distacco dalla gente per la quale tu diventi il funzionario superiore, il capo, Ma abbiamo dovuto farlo. Però credo che ovunque ci siano ugualmente gli spazi per realizzare ciò che ho detto prima. Basta essere attenti a imparare dalla realtà con cui si entra in contatto, capire i valori della gente che si incontra. Si tratta di crearsi una vita comunque povera, anche se non al livello di quella gente. lo per esempio benché direttore della scuola per anni, passavo quattro giorni la settimana vivendo nelle capanne abitate dalla gente, oppure in tenda accanto a loro nei villaggi. Mangiavo ciò che mi portavano loro. Era una vita durissima, ma agli occhi della gente serve a farti identificare immediatamente con la loro realtà. Quindi vedi che ciascuno si costruisce un po' le sue risposte da solo, a seconda delle situazioni. La cosa certa è che almeno fino a quando non ci sarà un decollo dello sviluppo, i governi stessi continueranno a chiederci una presenza strutturata. lo credo che il futuro della missione, per non essere troppo idealista, si giocherà sull'integrazione fra i due modelli, quello più strutturato e che mira a costruire strutture, e quello nuovo. Però tu mi hai detto che le strutture tradizionali della chiesa tendono a favorire un modo di fare missione di vecchio stampo. Il vostro rapporto con le strutture ecclesiali, su questi temi, è quindi conflittuale? Non c'è per fortuna una vera e propria attività di controllo su di noi. Perlomeno non è ferreo come in passato per cui le situazioni conflittuali si verificano solo quando noi proponiamo all'opinione pubblica attraverso i media un messaggio di notevole impatto - come è capitato con "Nigrizia" e la campagna sul traffico d'armi internazionale - e allora ci sono grandi polemiche. Perché in quel caso siamo arrivati a scomodare le realtà locali, e la gerarchia ha fatto interventi d'autorità. Ma più per motivi politici che non nel merito del dibattito teorico sulla posizione del missionario. Per tornare nel discorso, la nostra riflessione e un po' il tentativo di riportare la missione a noi stessi. Ora si parla di missione di ritorno. Negli Usa si fanno esperienze di presenza in situazioni di minoranze oppresse e ghetti in città, come luoghi in cui si va a verificare se stessi e la propria capacità di inculturazione. Di imparare cosa c'era da raccogliere in termini di ricchezza umana anche in queste situazioni. Questa veniva chiamata missione alla rovescia, Mission on reverse. Dovrebbe essere questa la mentalità giusta da ingenerare in chi semplicemente sente lo stimolo e il bisogno di andare ad aiutare gli altri. Tu dici: "Chi sente di voler aiutare gli altri". Questa volontà da dove nasce, come si configura? Di cosa si tratta, insomma? Penso che sia abbastanza difficile capire da un punto di vista teorico il modo con il quale si ingenera questo bisogno: mi sembra un fatto originale di ciascuno, forse dato dalla necessità di fare scelte dettate da uno sguardo che vada al di fuori di se stessi. A qualcuno può essere capitato ciò che è successo alla nostra generazione alla fine degli anni Sessanta: la constatazione di situazioni di ingiustizia, miseria, oppressione, in qualche modo ti scuote. Per altri può trattarsi solo di una riflessione sui testi: ci sono molti missionari che arrivano a fare scelte anche di donazione radicale sulla base delle sole letture del Vangelo. "Nigrizia" stessa per anni è stata fonte di vocazioni. L'affermazione del bisogno di ricerca di vita per milioni di persone che non ce l'hanno, ha spinto individui e gruppi a fare queste scelte. In sostanza si tratta di coinvolgersi al di fuori di sé rinunciando a progetti di vita legati solo alle proprie condizioni personali. Certo, la differenza che io vedo fra questa LATERRA impostazione e quella che io ho vissuto negli anni Sessanta e Settanta, è che allora si trattava di un fermento più sociale, che spingeva tanti a fare scelte anche di tipo politico, magari sfociate in forme estremistiche tipo Brigate Rosse. Ma il grande movimento verso il volontariato nasce dalla stessa sorgente. Oggi diventa molto più importante l'incontro con la persona, l'esposizione personale a esperienze concrete, e questo implica che oggi sia più difficile fare scelte di radicalità, perché allora tutto ti stimolava senza paura a buttarti, oggi invece c'è la paura di farlo, dell'ignoto, di ciò che non si conosce. Non si ha più il coraggio di rischiare, questa è la grande differenza. Una delle barriere o baratri più grossi è determinata dal fatto che il missionario è un bianco che va a fare missione, nel caso del- / 'Africa, fra i neri. Ora, io sono convinto che uno dei grossi problemi di chiunque lavori in Africa sia la barriera razziale, perché esiste, indotto del razzismo dei bianchi verso i colonizzati, anche una sorta di razzismo alla rovescia nero, che si esprime in un fortissimo complesso di inferiorità, che credo sia profondamente radicato nel modo di pensare e di sentirsi dei neri. È molto facile infatti vedere il bianco come quell'essere superiore che, proveniente da un altro mondo, sa risolvere i problemi dei neri. Come si sente il missionario di fronte a questa problematica, tipica peraltro di qualunque cooperante? Il rischio è quello di ribadire laposizione di superiorità del bianco. C'è stata senz'altro tutta una cultura della missione che aderiva a questo modo di pensare. Fare missione era proprio accettare questa presunta superiorità. Per cui, anzi, il missionario calcava la mano sulla faccenda. È vero quello che dici. lo ricordo sono arrivato in missione con le bellissime idee che ti vengono dal tuo periodo di formazione: un assoluto desiderio di integrarsi davvero dal punto di vista mentale con le persone in mezzo alle quali si va. Poi invece ti accorgi che la realtà è di versa perché tu hai già l'etichetta posta su di te solo per la tua pelle bianca. E questa non te la toglie nessuno. Proprio perché è un elemento ormai innato, interiorizzato, già presente, e te lo trovi addosso come un'eredità che sei quasi obbligato ad accettare. Dipende però dalla radicalità della scelta che tu fai. Per esempio un elemento che sarà sempre fondamentale per superare questa barriera è imparare la lingua locale perché per la gente è la prova concreta che tu arrivi con una prospettiva diversa da chi va lì solo per fare i propri interessi. Questo ti crea la base indispensabile per far poi fare alla gente il cammino che li allontani da quella impostazione: possono pensare: "lì si sforzano di comunicarci qualcosa ma non dall'alto". E io ho visto in Etiopia che sopratutto i giovani alla fine mi trattavano come se fossi un loro fratello,un loro partner, uno qualunque del loro gruppo. E questo dipende anche dalle persone e dalle sfide che ciascuno fa a se stesso. Chi per esempio fa la scelta di stare nelle città e negli slum a vivere le condizioni di vita della gente, immediataP' e: I
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