14 VISTA DALLA LUNA ~ o:: t:: <è -l classico, quello che va giù, che fa del bene eccetera, ma che comunque in un certo senso non scomoda la tua esistenza fino al momento nel quale torna su a chiederti i soldi, il tuo unico contributo alla missione. Quindi: i missionari come persone un po' strane, un po' straordinarie, specializzate in questo discorso. Che vanno ancora a convertire 'sti negretti. Certo, è un discorso che include anche un lavoro di promozione umana perché i missionari facevano le scuole, facevano le cliniche eccetera. Questo diventa l'aspetto più concreto, magari più terra terra, ma per arrivare a fare la missione un modo diverso è importante andare alla sostanza di ciò che si intende col termine "fare missione". Per questo io sono rimasto su un piano molto teorico. Ma dal punto teologico è necessario questo cambiamento di prospettiva, altrimenti si verifica quello che ora succede in Italia, dove un modo nuovo di porsi di fronte alla missione viene emarginato, e torna a emergere l'idea che al centro siamo noi, una chiesa che ha tutto, predeteminata, che va a costruire una realtà che ha bisogno di tutto attraverso quei sistemi tradizionali che abbiamo sempre tacciato di paternalismo. La tendenza attuale, in molti circoli ecclesiali, è quella di tornare a imporre una figura di missionario di quel genere, che ha senz'altro aspetti positivi in quanto legata alle cose concrete, perché rimane lì, non va a toccare alla radice il significato del fare missione. Cosa che invece faceva il Concilio Vaticano Il, affermando che la chiesa è già per sua natura missionaria, affermazione da cui discende il fatto che non esiste più una missione ridotta al solo livello geografico. Era già iniziata allora la spinta a cambiare la figura del missionario vecchio stile, solo che i tentativi fatti verso una concezione diversa, sono stati emarginati troppo spesso dal pensiero teologico. E oggi si torna a un concetto di missione molto definito: anche nell'ultima enciclica si sono poste differenziazioni geografiche ben chiare, e la figura del missionario è stata ribadita come colui che parte, va e converte. Un giornale come "Nigrizia" si era proposto invece di superare queste concezioni, o quanto meno di integrarle con una visone nuova. Perché la vecchia visione serve a non scomodare noi stessi, il nostro modo di essere cristiani, e di vivere la fede. Perché se davvero vuoi parlare di missione qui da noi, ti trovi di fronte a una serie di implicazioni tremende, di critiche da fare al nostro sistema di vita, di critica sociale radicale. Quindi è un alibi il voler andare a riscoprire la missione come era una volta. Una volta ho sentito dire: il primo scopo del missionario è evangelizzare. La credi ancora una frase sensata? Non è una frase che vorrei eliminare. Penso che sia lo stesso discorso. Si può ragionare su ciò che significa fare missione e allo stesso modo ragionare anche su ciò che significa evangelizzare. Perché in questo concordo pienamente col Papa quando parla di necessità di rievangelizzazione: non parla altro che del bisogno di riannunciare il Vangelo a qualunque realtà si incontri: alla struttura sociale in cui si vive. È la consapevolezza che la fede è ridotta a certi schemi, a certe cose che di fatto poi non si riesce a far coincidere con lo spirito evangelico. Viviamo con l'etichetta di gente battezzata e cristiana, ma non siamo evangelici nel senso che intendevo citando i dieci punti di prima. Secondo te il missionario può imparare dalle culture locali del terzo mondo? Non solo può ma deve. Deve convincersi che va per imparare. Fra le persone alle quali ho parlato ieri, per esempio, c'erano molti agenti pastorali di una certa età, persone con uno schema già ben definito. Il partire con una concezione di base che dice che si va per imparare, consente di aprire gli occhi davanti al fatto che il Vangelo in quelle culture è già presente. Se invece si va convinti che si deve solo insegnare è chiaro che si va convinti che non ha valore ciò che si incontra. Nella mia esperienza in Etiopia, anno dopo anno ho capito che quella gente non aveva nessun bisogno che io gli insegnassi come credere in Dio: già ci credevano avevano la mia stessa fede, e la mia funzione era quella di renderli coscienti che tutto questo si chiamava Vangelo, di metterli sulla strada che poi porta alla lettura stessa del Vangelo, alla scelta di crearsi delle comunità non solo per motivazioni umane e contingenti, ma anche per questo spirito nuovo che poi la comunità sa conservare comunque. Ma le culture locali hanno in sé anche elementi profondamente originali, che siano religiosi o no. E allora: da dove nasce per te il bisogno di questa sorta di traduzione nel Vangelo? Qui credo che ci sia l'elemento chiave che è quello dell'originalità che noi crediamo il Vangelo possegga di per se stesso. Cioè che sia quella realtà, quella parola, che dà pienezza a queste esperienze di incontro col divino, o spirituali, o interiori, perché il Vangelo è la manifestazione del divino. E questa è la novità: se noi diciamo di andare fin dall'inizio a costruire Chiesa, e davvero lo facciamo attraverso il far emergere questi elementi presenti nella cultura locale, a far emergere Cristo, a favorire l'incontro con questo essere e questa persona che è di più di tutto ciò che loro hanno incontrato dal punto di vista naturale fino ad allora, ecco che compiamo la missione che riguarda l'elemento teologico, al di là della sola promozione umana che pure chiama a un impegno. Se si mantiene invece l'attenzione solo sul costruire Chiesa e sul pensare Chiesa, si rischia di costruire un progetto soltanto proprio; si rischia di abbattere in nome di questo tutta la realtà già presente, perché è un modo precostituito che passa sopra tutto. Invece partire con minor senso di certezza - questo processo cioè che è stato chiamato di inculturazione, anche da un punto di vista teologico - significa recuperare la capacità di costruire Regno di Dio, capire che tutti questi valori non sono che l'espressione completa di quello che il Vangelo manifesta. SenI MISSIONARI za preoccuparsi delle strutture ecclesiali come le abbiamo costruite da noi. Più tardi, automaticamente si costituirà all'interno del gruppo sociale allargato quel nucleo che viene a definirsi chiesa. Questo è il metodo di San Paolo. Gli individui non venivano mai forzati, emergeva la loro scelta autonoma. Non è finito il tempo della missione, ma deve cambiare la mentalità di chi la fa. Come sono i giovani che scelgono difare missione oggi: sono aperti a questo tuo discorso? Sostanzialmente sono disponibili. Semmai ho paura che il tipo di visione che viene inculcata loro durante il periodo di formazione torni a essere di stampo tradizionale. Per cui loro preferiscono aderire a certezze ben definite in senso dogmatico e di fede, piuttosto che andare con quell'atteggiamento di apertura che conserva certo molta precarietà, però ti pone in un atteggiamento diverso; tu non ti preoccupi di arrivare ai battezzati, cerchi solo di rendetti presente, manifestare quello in cui credi con molta semplicità anche se poi quello che tu sei, quello che hai imparato viene fuori co nunque, ma si trasmette con lo stesso stile con cui tu impari dalla realtà in cui entri a vivere. Diventa davvero un cammino comune, non c'è quel baratro tra l'essere un missionario e... ... Baratro che è la cosa che tante volte spaventa. lo ho visto le missioni, ho parlato con i ragazzi e con i sacerdoti e effettivamente il baratro spaventa. Perché il missionario arriva come una potenza economica, con una capacità di costruire le cose e di trasformare il mondo e l'economia intera della regione in cui si installa, che il baratro è davvero profondo. Il missionario a volte mi è sembrato quasi il signore feudale di una regione intera -ma la stessa cosa accade peraltro anche ai cooperanti. Questo baratro, come l'affronti? È una domanda importante perché apre l'interrogativo sui modi diversi di presenza. Per anni "Nigrizia" e le riviste di questo tipo hanno cercato di spiegare - senza dare un giudizio spietato sul missionario che comunque di bene ne ha fatto moltissimo - che la missione si apre oggi a forme assolutamente diverse e a volte opposte fra loro. Per cui idealmente si dovrebbe cercare di risolvere questo baratro, soprattutto dando il via ai processi nuovi di cui ho parlato prima: e ci sono esempi bellissimi di missionari che lo fanno, come le comunità di Madre Teresa, o le comunità dei Piccoli Fratelli, o esperimenti anche nostri di comboniani che vivono nelle periferie delle grandi città, e questo è proprio l'inizio del futuro. I Petits Frères, ad esempio, scelgono per regola di avere uno stile di vita povero in tutti i sensi. E interpretano alla lettera la regola, per cui tutto ciò che è inutile, ciò che non serve immediatamente i:\ soddisfare i bisogni fondamentali non c'è, nelle loro comunità: quindi una povertà assoluta di mezzi, cosa tipica anche dello stile delle suore di Madre di Calcutta. Non confidare poi troppo
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