Linea d'ombra - anno X - n. 70 - aprile 1992

dell'immediato primo dopoguerra, della guerra fredda e del maccartismo sono state tutte pervase e motivate dall'accusa di Un-Americanism (!;essere non-statunitensi e quindi anti-statunitensi) rivolta agli oppositori che si volevano eliminare. Se oggi la fobia antinipponica non è ancora diventata endemica negli Stati Uniti, pur avendo già dato luogo anche a fenomeni di intolleranza violenta molto significativi, lo si deve a una serie di ragioni che si intrecciano e sovrappongono. Anzitutto, da troppo poco tempo è scomparso il Grande Nemico comunista, e nel vastissimo paese sono necessari tempi lunghi perché nel senso comune generale un nuovo nemico sostituisca quello di sempre. Poi: l'assenza o scarsità di "contatto" con l'informazione e la politica, dovute a un'indifferenza in cui si combinano a loro volta passività, ignoranza, povertà, sfiducia. Naturalmente, è determinante anche il fatto che sia nel campo dell'informazione, sia in quello della politica esista chi non accetta o combatte la logica del ricorso al "pericolo giallo" per spiegare i mali del paese. Tuttavia, la penetrazione di quella fobia nel senso comune ha già raggiunto un primo risultato: la pratica della verità divisa, o delle diverse "verità" a seconda delle circostanze e delle convenienze, si è diffusa in ogni strato sociale. Qualche anno fa, vidi Lee Iacocca strappare l'applauso all'assemblea degli azionisti della Chrysler attaccando e quasi insultando i concorrenti giapponesi invasori del mercato in una parte della sua relazione annuale e poi, in un'altra fase del discorso, valorizzare la collaborazione con i costruttori giapponesi che fornivano parti e motori di ottima qualità per le automobili Chrysler. Applausi scroscianti anche in quel caso. Nel gennaio scorso, lo stesso Iacocca metteva insieme nello stesso discorso l'attacco a Pearl Harbor e l'attuale "attacco" all'industria dell'auto statunitense ("Siamo nel loro mirino ...Dobbiamo disarmarli"); e però i suoi affari con la Mitsubishi sono ancora aumentati. Non è infrequente incontrare persone che ce l'hanno con i giapponesi e poi comprano Toyota "perché loro le fanno meglio" o "perché durano di più con meno manutenzione". E i rivenditori di Dodge o di Chevrolet non riescono a spiegarsi come mai la gente continui a preferire le auto giapponesi alle loro, che montano esattamente gli stessi motori o che sono di fabbricazione "giapponese". · Tra l'altro, nonostante le decine di migliaia di licenziamenti nel settore, anche il sindacato dell'auto gioca pubblicamente e in modo sporco soltanto la carta del risentimento antinipponico tra i suoi membri (comportandosi quindi come i padroni), senza intavolare una sola lotta per la difesa dei posti di lavoro o la rivendicazione di provvidenze per i sospesi e i licenziati. Eppure, buona parte delle auto giapponesi vendute e dei motori giapponesi montati sulle auto statunitensi sono prodotti negli Stati Uniti in fabbriche sindacalizzate. In realtà, la "concorrenza sleale dei giapponesi" non c'entra nulla con la disoccupazione altissima, la diffusa povertà, la cancellazione di ogni residuo di welfare state, il degrado profondo dell'ambiente urbano. Piuttosto, i problemi sono dovuti agli effetti combinati del restringimento della quota statunitense del mercato mondiale, in atto da oltre quindici anni, e della enorme spesa per la difesa. La corsa nucleare e spaziale con l'URSS è stata troppo lunga e costosa. Lo stato che l'ha finanziata è giunto a un indebitamento senza precedenti ed è incapace di gestire la propria economia nazionale. I critici neoliberisti dello stato sociale hanno finto di non sapere che ciò che loro stessi stavano praticando negli anni di Reagan era una specie di keynesismo non dichiarato e, diciamo così, traslocato fuori del suo terreno classico: enormi finanziamenti pubblici erano sottratti alle assistenze sociali, alle città, alle scuole per essere destinati IL CONTESTO alle industrie militari e paramilitari. Venivano così sostenuti interi settori industriali e sacche limitate di occupazione, mentre la miseria sociale veniva lasciata crescere. Diminuivano i redditi delle fasce sociali medie e mediobasse; aumentavano i disoccupati delle grandi industrie pesanti, che non trovavano più lavoro o lo trovavano solo saltuario, a tempo parziale, a salari dieci volte più bassi; venivano tagliate quasi tutte le coperture assistenziali. Eppure, tanto nel discorso politico, quanto in quello giornalistico la realtà veniva_negata, deformata e piegata alle esigenze. tutte ideologiche dell'esaltazione dell' "America tornata grande". La retorica sciovinista della Casa Bianca dettava la linea di comportamento anche per i media. Ma non solo: fin dalla sua prima amministrazione, Reagan prese anche l'iniziativa di ridurre drasticamente tutte le attività federali di raccolta e organizzazione dei dati statistici nazionali. Anche i criteri di molti rilevac menti statistici vennero brutalmente alterati. Sottraendo informazioni essenziali alla formazione di conoscenza e quindi di giudizi, come sottolineava Donl)a Demac nell'unica ricerca che documentò nel 1984 le perverse innovazioni reaganiane, l'amministrazione Reagan cercava sia di ripararsi dagli sguardi degli eventuali osservatori e critici, sia di controllare i parametri del dibattito politico. Tutte le realtà sgradevoli riguardanti l'occupazione, la protesta sociale, la salute pubblica, l'assistenza, la protezione ambientale furono semplicemente non registrate o rilevate molto parzialmente. Erano gli anni, inutile forse ricordarlo, della retorica più revanscista e della promessa del vittorioso scontro finale con l'Impero del Male (per cui, tra l'altro, su una grande quantità di informazioni riguardanti anche indirettamente la difesa, la scienza e la tecnologia venne imposto il segreto). E la grande stampa nazionale si comportò allo stesso modo di trent'anni prima, in quell'altra fase acuta della guerra fredda, accodandosi alla linea politica dell'amministrazione, tacendo sulle mistificazioni ufficiali e sulla realtà che pure si offriva agli occhi dei cronisti e dei commentatori. Solo nell'ultimo paio d'anni ha fatto la sua ricomparsa quel "giornalismo critico" che è tanto giustamente celebrato, quando viene praticato. L'occasione non è stata la guerra contro l'Iraq, raccontata sulla base delle informazioni ufficiali, quanto la sempre più grave crisi sociale, economica e finanziaria del paese. Tuttavia, anche nelle frequenti discussioni attuali della recessione in corso, si ha spesso un'impressione di reticenza, come se si parlasse di una crisi senza radici, di un _disastrosenza cause. Non è affatto l'assenza della dimensione "storica" nella pratica giornalistica statunitense, si tratta molto più probabilmente della intrinseca disposizione ad accettare le verità dall'alto e i contesti dati. Il disastro sociale ed economico affiora solo da poco sulle pagine dei giornali essenzialmente per due ragioni: la prima, che la realtà è diventata talmente drammatica che è semplicemente impossibile ignorarla. E i canoni del mestiere impongono, quando di una cosa non si tace più, di parlarne il più seriamente possibile. Il che, comunque, vuol dire descriverla nella sua fenomenicità, molto più che ripercorrerne la genesi. La seconda è invece un segnale di altro tipo; è cioè da vedere come indicativo della debolezza di Bush rispetto a Reagan, vale a dire della minore capacità del presidente attuale di coprire la realtà sotto il velo dell'ideologia. La stessa vittoria contro l'Iraq, scontata in partenza anche per i più pessimisti, ha rivelato presto i suoi limiti di vittoria "soltanto" militare e si è offerta all'attenzione generale come, da una parte, incapace di portare alla soluzioQe politica dei problemi della regione e, dall'altra, come un'inutile azione dimostrativa e

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