MECCANICO O ORGANICO Forma e voce nel romanzo Margaret Laurence traduzione di Chiara Vatteroni Il nome di Margaret Lawrence è ben noto ai nostri lettori. Di lei abbiamo pubblicato un racconto nel n. 4 I, settembre 1989 (Mettere inordine la casa) e su di lei ha scritto Chiara Vatteroni nel n.60, maggio 1991 (La canadese venuta dall'Africa). Il romanzo edito da La Tartaruga l'anno scorso, La prima volta di Rachel; del 1966, che è stato portato sullo schermo da Paul Newman per la moglie Jo·anne Woodward, ha suscitato finalmente l'interesse dei critici e dei lettori per questa grande scrittrice. Nata nel 1926 nella provincia di Manitoba, a Neepawa, che le ha dato lo · spunto per l'invenzione della cittadina di Manawaka al centro delle prairies canadesi, sfondo dei romanzi e racconti detti appunto del "ciclo di Manawaka". Nel 1949 si trasferì con il marito in Inghilterra e nel 1950 in Africa (Somalia e poi Ghana) dove rimase per cinque anni (narrando poi nel romanzo This Side Jordan, del 1960, le difficoltà del rapporto tra colonizzatori e ,colonizzati). Ali' Africa ha dedicato i racconti di The Tomorrow-Tamer(l962)e le memorie di The Prophet's CamelBell(l 963). I libri del "ciclo di Manawaka" sono: The Stone Angel I964), La prima volta di Rachel ( I966), The Fire-Dweller,s (l 969), A Bird in the House (1970), The Diviners (1974). Altri suoi scritti: un libro per bambini, Jason's Quest( 1968), i saggi Heart of aStranger( 1976).Quello che segue è ÌI testo di un discorso tenuto nel 1969 nell'Università di Toronto. In un saggio, Graham Greene ha avanzato l'ipotesi che esista un momento in cui ogni serio romanziere scopre qualcosa che sa di non poter fare e che da questa consapevolezza egli sviluppi una tecnica che gli permette di rimediare a tale impossibilità - in altre parole, una tecnica grazie alla quale possa provare a comunicare almeno qualcosa di ciò che percepisce come incomunicabile. Nel raro caso del genio - e non dimèntichiamo che i grandi scrittori s?n~ estremamente rari - le vecchie forme vengono frantumate; s1sviluppano forme genuinamente nuove e, -come credo sia stato il caso di James Joyce- l'aspetto stesso del linguaggio si modifica. Per quanto riguarda noi altri scrittori, l'evoluzione di una forma non è mai del tutto nuova ed è solitamente molto meno sperimentale e? originale_di quanto ci piacerebbe immaginare; si tratta piuttosto d1un tentativo verso qualcosa che è nuovo per noi, lo sforzo per scoprire un mezzo - un veicolo, se preferì te - che sia in grado di render~ chiare alcune delle cose che sentiamo l'esigenza di comunicare. Non ho intenzione - e sarete contenti di sentirmelo dire - di tentare u~' analisi dei molti modi in cui il romanzo contemporaneo sta cambia~do. Non sono nermneno certa che qualcosa di quanto ho d~ dire abbi~ va_loreo sia minimamerrte interessante. Mi propongo d1parlare pnnc1palmente delle varie modificazioni formali ali' interno del mio lavoro, semplicemente perché ne ho un'esperienza diretta e lo conosco meglio dell'opera di chiunque altro e perché conosco anche le ragioni di quei cambiamenti e anche - come mi piace pensare - degli sviluppi interni. E perché conosco i molti problemi incontrati mentre cercavo la forma che permettesse ai personaggi di emergere ed esprimersi. . Quanto è influenzato uno scrittore dagli altri scrittori? Si è sempre molto interessati a quello che fanno gli altri, ma personalmente credo che la maggior parte degli scrittori sia molto poco influenzata dal lavoro dei loro contemporanei. Se le analizziamo, raramente le "scuole" stilistiche si dimostrano dei veri gruppi. I cosiddetti Giovani Arrabbiati degli anni' 50 in Inghilterra in realtà espressero soltanto il tono e i sentimenti della loro generazione. 44 pria particolare prospettiva. Ognuno lavorava per una necessità individuale, non con la consapevolezza di una reciproca relazione con - gli altri autori. Genericamente parlando, credo che la maggior parte degli -scrittori elabori una - forma individuale e un proprio· mezzo di espressione attraverso la forte pulsione ad accostarsi al materiale scelto, ad esprimerlo con più completezza, a parlare quanto più possibile di una singola verità, secondo la pro- .. Non _homai pensato alle forme e ai mezzi di espressione (mi nfmto d1 adoperar~ quell'odiosa parola, stile) come dotati di un significato autonomo. Non sono per nulla interessata a provare forme e mezzi di e_spressioneche siano nuovi -o almeno nuovi per me semplicemente per il gusto di provarli o per il gusto di fare qualcosa ?i ?i verso. La forma in se stessa è un'astrazione che, per quanto mi nguarda, non ha un fascino particolare. Non ne faccio un' affermazione di tipo qualitativo - dico solo che si dà il caso che sia vero per me. Principalmente, mi interessa trovare una forma che permetta ad un romanzo di rivelarsi, una forma attraverso cui i personaggi possano respirare. Quando cerco di pensare alla forma per se stessa, devo porla in termini visivi - la vedo non come una casa o·una cattedrale, o un qualsiasi edificio, un contenitore, ma · piuttosto come una foresta, attraverso cui si può guardare all'esterno, dove le sagome degli alberi non impediscono al sole e all'aria di penetrare e in cui gli alberi stessi sono strutture in crescita qualcosa di vivo. Naturalmente si tratta di un ideale, certament~ non è un risultato che si possa conquistare. . Quando scrissi il mio primo.romanzo, This Side Jordan (Da questa parte del Giordano), avevo ben poca consapevolezza della forma. Il romanzo è modellato in modo tradizionale, con una narrazione progressiva in terza persona e i capitoli si alternano tra il punto di vista dell'insegnante africano, Nathaniel Amegbe, e quello dell'inglese, Johnnie Kestoe. Scrissi il romanzo episodicamente, senza un ordine particolare, ed infatti nella mia mente non assunse nemmeno una forma qualsiasi finché non ne ebbi scritte più di cento pagine. Scrissi per prim~ le pagine finali. Quando ebbi molti episodi, li sparpagliai sul tavolo della sala da pranzo della nostra casa in Gl']ana e pensai, "Che confusione." Il che era certamente vero. Mi resi conto che quello che avevo era, per così dire, una gran massa di carne narrativa, senza però uno scheletro, delle ossa sottostanti che sostenessero l'intera struttura. Cominciai a intravvedere la necessità di organizzare questa massa amorfa, ma non volevo sovrapporvi né un ordine fittizio né
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