Linea d'ombra - anno X - n. 70 - aprile 1992

CONFRONTI Memoria e colpe. Laquestione dell'alterità Frediano Sessi Nella tradizione ebraica, i morti non sono tali fino a quando qualcuno li chiama per nome. "Dare un nome a ciascuno è come richiamarlo in vita", ricorda Liliana Picciotto Fargion autrice della ricerca edita da Mursia (1991) Il librodella memoria. Gli ebrei deportati dal 'Italia (19431945). E continua: "Una volta all'anno, in tutte le comunità ebraiche dove è già stato fatto un lavoro come quello svolto da noi ora, ha luogo una cerimonia durante la quale vengono letti cognome e nome di tutte le vittime della Shoà. La lettura viene fatta nello stesso giorno in tutte le comùnità, in modo che risulti una specie di grande rievocazione corale. È quindi molto importante per noi che da oggi anche i nomi italiani possano essere letti in quel giorno. Ed è ancora più importante che, ora che i testimoni della tragedia stanno per scomparire per ricambio naturale, rimanga la parola scritta a raccontare, a trasmettere il ricordo".' il libro della memoria è il frutto di una ricerca più che decennale promossa dal Centro di Documentazione Ebraica di Milano e raccoglie, tra le sue 950 pagine, 8.869 nomi degli ebrei italiani deportati durante l'occupazione nazista ti-ail 1943 e il 1945. Per ciascun nome, dove è stato possibile, vengono riportati i dati anagrafici, l'ultima residenza, il momento dell'arresto, il luogo di detenzione in Italia, la. data e il convoglio di deportazione e l'epilogo che, per la maggior parte di loro, coincide col decesso. "Ogni singolo nome della lista rappresenta la tomba individuale per quanti ricordano i loro cari scomparsi nella Shoà" scrive Serge Klarfeld nella sua prefazione, e aggiunge, poco più avanti: "Alla volontà dei nazisti di escludere dalla Storia le prove del crimine inaudito che stavano mettendo in atto, il popolo ebraico ha risposto con una volontà di segno opposto: documentare rigorosamente attraverso la pagina scritta e talvolta l'immagine, la storia del genocidio, nella coscienza che gli altri popoli avrebbero a lungo preferito stendervi attorno l'oblio". Dunque una sorta di resistenza attiva a distanza di ormai mezzo secolo, quasi a ribadire alle nazioni della terra che un popolo, quello tedesco, si troverà sempre di fronte a un "passato che non può passare", non superato e nemmeno superabile. Una constatazione che può sconvolgere il lettore di oggi, nato dopo la guerra, e non solo le giovani generazioni di tedeschi o austriaci,'i cui padri più di altri sono implicati direttamente nella responsabilità materiale dell'Olocausto, oltre che nella colpa morale. Proprio questo libro, che tanti riconoscimenti critici e di stampa ha avuto - e meritatamente-, offre la possibilità di interrogarsi su alcune questioni ancora aperte, e, forse, difficilmente risolvibili, in quanto per loro natura esse sfiorano l'indicibile, ciò che in antropologia si chiama "tabù", toccando le radici stesse della nostra cultura di occidentali; ciò che G. Steiner chiama il problema "dei tre corpi": razza (o etnia), religione, nazionalità, "tre termini che sono in una interrelazione reticolare".2 Quanto, in termini di riflessione, sollecita Il libro della memoria, non è nuovo. Dopo la sco·- perta dell'orrore dei lager e delle camere a gas, molti hanno chiesto vendetta, ma altri hanno rotto il silenzio, come Primo Levi, allo scopo di fornire materiali per uno studio "pacato" del genere umano: "Questo mio libro, in fatto di particolari atroci, non aggiunge nulla a quanto è ormai noto ai lettori-di tutto il mondo - siamo nel 1947, a due anni dalla fine del conflitto, e l'edizione di riferimento di Se questo è un uomo è quella di De Silva-sull' inquietante argomento dei campi di distruzione. Esso non è stato scritto allo scopo di formulare nuovi capi di accusa: potrà piuttosto fornire documenti per uno studio pacato di alcuni aspetti dell'animo umano". Nuova è invece, per l'Italia, la specifici_tàdel corpo centrale del libro, che toglie dall'oblio totale nomi ·e storie che i nazisti volevano cancellare dalla terra; essa rende più evidenti le atrocità commesse e insieme sottrae dall'ambito della memoria familiare l'identità delle vittime allargando il sentimento del dolore a tutti i potenziali lettori. Rituale è, ancora, il suo significato simboli~ CO, quello stesso con cui l'autrice, rimandandoci alla tradizione ebraica, fonda il senso forte del libro. Vien da chiedersi se anche il non ebreo può appartenere a questa ritualità - verso cui, per altro, il libro spinge il lettore; una domanda ché nasconde in sé un'idea con un doppio risvolto: allargare a tutta l'umanità il senso di appartenenza alla tragedia di un popolo (Karl Jaspers, scrivendo a Hannah Arendt a proposito del processo Eichman, non ha dubbi nell'affermare che il caso tedesco riguarda non solo un popolo ma l'intera umanità, in caso contrario se ne "immiserirebbe" la portata)3, non è forse come affermare che questo popolo perde una parte del diritto à una sua specifica identità? Ma come sentirsi fuori da questa comunità? O meglio ancora, com'è possibile per chi vi appartiene, laico o ortodosso, per effetto di nascita, operare delle esclusioni? Sarebbe come voler riproporre la propria diversità originale, valore al di sopra di ogni altro valore? La storia del popolo ebraico, dopo Auschwitz, il suo destino, suggerisce Sartre, è anche la mia storia, il mio destino. Intorno a queste interrogazioni, è necessario soffermarsi, nel tentativo_di sollecitare una riflessione, tutt'altro che metaforica, che ci porti a confrontarci col tema dell'alterità. Entriamo, dunque, autorizzati o non, a far parte di questa ritualità e anche dei racconti (libri di storia, diari, raccolte di documenti, romanzi, film) che rappresentano la tragedia del popolo ebraico per mano nazista. . C'è in essi un rapporto di necessità tra memoria e dolore, tra memoria e monito e, ancora, tra memoria e resistenza all'oblio che pervade ogni riga, ogni lettera, ogni fotogramma. In quasi tutti, la spinta a raccontare perché sia mantenuta la memoria dell'orrore, apre una ferita drammatica quasi come quella del ricordo delle sofferenze passate o dei fratelli perduti: sarò mai creduto nel mio racconto? Riuscirò a superare il divario tra le parole e l'esperienza, tra i' immagine e la realtà? Ci sarà mai un libro capace di documentare appieno ogni vita, ogni storia familiare, uno a uno i sei milioni di sommersi? Quello che erano e quello che sarebbero stati vivendo? O un pensiero capace di dirci quanto, in. termini di cultura, abbiamo perduto per sempre? Dentro il rito della memoria, le parole, i nomi si incarnano nelle persone e la loro storia diviene la mia storia. Lo abbiamo già rilevato: sembra questa una posizione imprescindibile ma altrettanto controversa. C'è infatti una specificità del dolore e della storia, allo stesso modo di un'appartenenza d'origine. Il problema sta, forse, nel vedere se questa appartenenza (a un popolo, a una nazione) sia l'unica fonte possibile d'identità (collettiva e individuale), e non, invece, come constatiamo ogni giorno, portatrice di differenze' e conseguenti discriminazioni ineliminabili. Ciò che il popolo ebraico ha subito per mano dei tedeschi, in nome di un'identità a loro non riconosciuta, ma necessaria al Volk per sentirsi nazione, i Palestinesi lo provano per mano del Governo d'Israele? (non dimentichiamo né le differenze, né la natura diversa dei due drammi storici o le circostanze che li hanno provocati e le dimensioni del dolore; ma, il dolore di una perdita, necessita di tante distinzioni per essere riconosciuto e fermato? comprende in sé differenze, circostanze, confini?) Ci sono due ordini di questioni che sembrano farsi spazio tra le tante: il problema controverso delle colpe e quello, secolare per la nostra vecchia Europa, dell'altro. Lo sappiamo: la memoria implica anche lo smascheramento delle colpe: distinguendo, ali 'interno di questo plurale, la responsabilità diretta nel crimine - una responsabilità giuridica -dalla colpa morale considerata più in generale. Il libro della memoria, corredato all'inizio e nella sua parte finale da un'accurata ricostruzione storica degli eventi che riguardano la deportazione degli ebrei italiani nei campi di sterminio tedeschi, apre esplicitamente il discorso intorno alle responsabilità giuridiche dei nostri padri nella Shoà; un capitolo sul quale si tende a stendere un velo di silenzio, mitizzando la buona disposizione del popolo italiano a proteggere i propri ebrei. Ma se il tema della responsabilità diretta implica necessariamente un concetto giuridico di colpa individuale "dove tutti sono colpevoli, nessuno è colpevole" scrive Hannah Arendt', la questione della colpa, intesa come responsabilità morale, si allarga e travalica i confini della Germania o dell'Austria, della Polonia o dell'Ucraina-per citare solo alcuni dei popoli pi~ direttamente implicati nella persecuz10ne degh 23

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==