O VISTA DALLA LUNA ~ ~ <t:: ....i allora nel progetto "Carayas" di sfruttamento del sottosuolo. Era un polo di diversi insediamenti, una grandissima regione con il progetto di sfruttamento del sottosuolo e idroelettrico. Una realtà completamente diversa: non c'era la maturazione politica di Belem anche perché per la gente era una zona di passaggio, malarica, da altri stati. La gente trovava un appezzamento di foresta e disboscava, e se riusciva lavorava. Però molti poi se ne andavano perché le condizioni sanitarie erano pessime, ma molti restavano a cercare fortuna, oro e minerali. Era centrale la questione della terra, c'erano diverse famiglie che la lavoravano su grandi progetti in via di allargamento. N~n c'era ancora la tensione politica e sindacale che c'è adesso. Allora Sao Felix era completamente isolato, si raggiungeva per aereo o per via fluviale, ed erano cinque giorni di navigazione, mentre adesso è arrivata la strada e con la strada tutto cambia. Cominciano le difficoltà sociali, quindi. È lì che due nostri padri recentemente hanno avuto problemi con la polizia del posto, per aver preso le difese di alcuni contadini. Uno di loro è stato picchiato. E voi lì cosa facevate? La nostra attività era decisamente insufficiente. Era molto tradizionale, era un lavoro di sacramentalizzazione fra la gente, dovuto anche alla presenza di missionari che non avevano una certa visione e preparazione, e si limitavano a un'opera di stampo più tradizionale. La differenza con i missionari di Belem, anch'essi saveriani, era forse determinata da differenze di sensibilità personali. Ma anche dalla preparazione della gente del luogo. A Belem c'era un movimento di base già maturo per certe cose. A Sao Felix do Xingu no, era tutta gente che aveva vissuto al di fuori delle città, nella foresta e nella campagna. La maturazione della gente condiziona anche la chiesa. Se la gente è impreparata, il missionario, escluso casi eccezionali, si adagia. A Sao Felix ci si accontentava di poco. Non la ritenevo una presenza profetica. Vivevamo nel villaggio, dentro a tutte le tensioni di allora, come la questione indigena, che venivano però affrontate in maniera paternalistica. Invece ora, a dieci anni di distanza, lo stesso padre che non se la senti va di andare a visitare un villaggio di indios a mani vuote, ma arrivava sempre con un battello carico di mercanzie per la paura di non essere accettato, adesso lo stesso padre vive da indio dentro al villaggio. È certo una presa di coscienza e una maturazione: non è lì solo per battezzarli, non è quello lo scopo primario della sua missione, ma è lì per incarnarsi in quella realtà. In un villaggio che ha forse qualche centinaia di indios. E secondo i criteri pastorali classici potremmo dire che è una persona sprecata, perché ci sono città di centinaia di migliaia di abitanti senza un agente pastorale. Ma questo è invece un elemento interessante, che segna il tracciato, un cammino che la chiesa in missione sta portando avanti, un elemento che non era certo importante anni fa, a parte casi sporadici. Ora è la scelta di una intera congregazione. La presenza non può essere che quella: dentro al villaggio, senza impostare la classica presenza legata alle strutture, al dispensario, alla chiesa. Il missionario partecipa alla vita comune della gente, partecipa ai raduni del villaggio e il villaggio tiene ad ascoltare il suo parere; c'è quindi uno scambio fra missionario e gente comune. Ecco, tutto questo rappresenta la nuova visione del1'agente missionario, sono quelle pennellate che danno un senso alla sua missione pastorale. Dopo Sao Felix sono stato un anno nel nord del Parà: ad Acarà, inserito in un équipe pastorale, composta da suore e preti saveriani, in sei. È stata l'esperienza più interessante e più bella, perché c'era già un terreno pronto per quanto riguarda le comunità ecclesiali di base. Seguivamo una cinquantina di comunità sparse su un territorio vastissimo, il nocciolo del discorso era: responsabilizzare i laici, i credenti senza investitura sacerdotale, nella pastorale. Era una comunità ecclesiale di base, e cioè l'insieme di persone che vivono in un determinato territorio e si radunano per celebrare la loro fede alla luce del discorso che facevamo prima: aprire gli occhi sulla realtà. E ognuno si impegnava in qualche settore, la questione della terra, la salute, la scuola; o nel tentativo di creare cooperative, enti comunitari di distribuzione per evitare lo sfruttamento da parte del commerciante. Oltre naturalmente a tutta la preparazione della gente in senso di catechesi. Ad Acarà io ho visto veramente il cammino di uni\ chiesa di base, che si raduna nella fede ma vive questo come impegno per portare avanti delle rivendicazioni e dare un respiro alla gente. Una domanda che ci si può fare è: ma questo lavoro dava risultati dal punto di vista materiale? La presenza missionaria riesce solo, per così dire, a "tenere" un certo stile di vita, o riesce anche a cambiare le cose? Il futuro insomma. C'è un futuro per quella gente? Il futuro si vede. Bisognerebbe star lì per un periodo più lungo per vedere risultati palpabili. Ma per esempio sul piano sindacale ho visto dei grossi miglioramenti. Lì erano i primi anni del sindacato, stava muovendo i primi passi. Fino allora c'era stato solo un sindacato governativo. Il sindacato di opposizione è nato anche all'interno della nostra attività missionaria. Non tutti i comuni avevano un sindacato di opposizione. Ad Acarà c'era così come in un paese vicino, Monxiu, dove c'era una bella presenza di chiesa, dove il sindacato d'opposizione ha sconfitto quello governativo. È un risultato che si tocca con mano. E poi in campo sanitario: per chi vive all'interno e non ha la possibilità di avere un mezzo pubblico di trasporto, e ci vogliono due o tre giorni di viaggio per arrivare al primo posto di soccorso, le farmacie comunitarie sono state un risultato importantissimo, una conquista, con personale della zona preparato per questo, soprattutto donne che si sono I MISSIONARI offerte come volontarie, preparate dalle scuole che avevamo impiantato, capaci di affrontare le malattie più comuni, o le ferite, o di assistere i parti. Due o tre volte all'anno si organizzavano corsi di formazione. Di fronte alla volontà politica del governo di massacrare la scuola, di mantenere la gente nell'ignoranza, le comunità di base organizzavano corsi di alfabetizzazione, e garantivano il sostentamento all'insegnante. Certo, per fare tutto questo la fede è essenziale. Ti permette di leggere la realtà e capire le cause della situazione. Ti dà un metodo semplice e accessibile a una popolazione analfabeta. Pensa che noi raccontavamo la bibbia mediante disegni, così come si faceva per altri temi. Leggere criticamente la realtà, trovare piste sociali per intervenire. Si arrivava a raccolte di firme, petizioni alle autorità, senza limitarsi a coltivare solo il proprio orticello. A me piace il verbo vedere, che tu hai utilizzato: vedere la realtà. E rifletto sulla differenza con il verbo guardare, che invece non hai usato. In teoria guardare implica una selezione, si sceglie la porzione di realtà sulla quale dirigere la propria attenzione; mentre vedere è passivo: perché si vede tutto ciò che si ha davanti agli occhi, ma non sempre lo si guarda con attenzione. Il tuo uso del verbo vedere mi fa invece pensare quasi a una compresenza di mondi paralleli: volgendo lo sguardo in una medesima direzione, occhi diversi possono vedere mondi diversi. I termini hanno il loro significato. Per esempio: il turista osserva. Ovviamente non è programmata la visita nelle periferie. Anche la fotografia scattata sulla miseria è un semplice osservare e non ancora vedere. In Brasile c'è un detto molto bello: vedere con gli occhi del povero, non con gli occhi del turista. Il punto di osservazione non è mai neutrale. Dai palazzi dei ricchi io vedo la realtà in modo diverso. In Italia il ruolo del missionario è ancora più importante. Tutto si mondializza, e la crisi del sud del mondo si ripercuote a livello generale. Il ruolo del missionario oggi è quello di rendere cosciente la gente di questa interdipendenza. È quello che, usando un'espressione liturgica, si può chiamare il Sacramento del ponte, che lega la nostra società occidentale e la connette a situazioni che noi consideriamo periferiche. Io ho lavorato con gli immigrati, che in questo momento sono la categoria attraverso la quale noi scopriamo questa interdipendenza. Sono gli occhi del terzo mondo che vengono da noi. Gli occhi degli immigrati ci mettono a contatto con i drammi del terzo mondo. Una volta c'era solo il missionario, che raccontava. Oggi gli estremi del mondo si toccano. Le periferie vanno al centro. Così il ruolo del missionario divel)ta più importante. Se il missionario non riesce a far rimbalzare nel suo paese di origine le cause di questa povertà, perde una possibilità preziosa. Oggi si parla della missione del ritorno: una volta si partiva e chi s'è visto s'è visto. Ma se uno va in missione e già in partenza esclude
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