2 VISTA DALLA LUNA <,:'. e,: e,: U.J E- .,: ....l Andrea Berrini Andrea Berrini (Milano 1953) si occupa di problemi dell'Africa orientale, collabora al "Manifesto", "Africa", "Nigrizia" e ha scritto per la Clup una guida. a Kenya e Tanzania, più volte ristampata. Suoi racconti sono apparsi su "Linea d'ombra". I materiali che pubblichiamo in questo numero e pubblicheremo nei prossimi (interventi e interviste) sono dovuti alla sua cura. Le fotografie di questo numero sono tutte di ambiente lucano, opera di Mario Cresci (Chiavari 1942), che vive da anni tra Matera e Milano, dove insegna in una scuola di fotografia. Ha pubblicato Matera, immagini e documenti (1975), Fotografia come pratica analitica (1977), Misurazioni (1979), Due dimensioni (1979), L'archivio della memoria (1980) ecc. Ha tenuto mostre personali in molte città d'Italia e all'estero e vinJo numerosi premi (il !(Jiecce,il Bolaffi, ecc.). È anche disegnatore e pittore. Il linguaggio missionario Conoscevo la missione per averla vista in molti paesi africani, con gli occhi del comune viaggiatore. Ne capivo il senso concreto, ne vedevo le attività, intuivo il ruolo dell'agente pastorale fra quella gente. Conoscevo storie di missioni che tanto somigliano ad aziende economiche, e storie di missionari che di volta in volta mi avevano presentato un volto da "cooperante allo sviluppo" o da evangelizzatore integralista. Sicuramente la parte più interessante di queste storie è quella più personale. Chi sono questi individui che, nel contesto della loro attività di sacerdoti, scelgono di ricominciare le proprie vite nei paesi del sud del mondo, spesso in regioni lontane dalle città, dalle grandi arterie di comunicazione? Forse, a loro modo, sono un po' avventurieri, un po' esploratori. Gli appunti che seguono sono spunti di riflessione alla luce di un limitato lavoro di ricerca alle fonti della missione, in Italia. Credo che un quadro più preciso emerga invece proprio dalle parole dei missionari che ho intervistato - nonostante la difficoltà di arrivare a una sintesi data l'estrema varietà delle esperienze: davvero, ogni missionario sembra inventare una storia a sé. 1)Ecco una missione: si arriva dalla boscaglia, magari a piedi lungo una pista sterrata fra piante secche e cespugli, il letto asciutto di un torrente, una capra legata a un tronco che cerca l'erba stenta, e dietro la balza la chiesa è un colosso bianco, parallelepipedo posato lì dal suo Dio, con la gettatina di cemento a perimetrarla tutt'intorno per separarne le linee dalla terra rossa su cui sembra solo appoggiata, un'astronave pronta a ripartire. Lì, il viaggiatore bianco riposa lo sguardo su forme note, e sale l'ampia scalinata che lo introduce agli alloggi confortevoli, sapendo che lo aspetta un thermos di caffè sempre pronto, e pane imburrato, marmellata, miele. Delizie dell'occidente. Cosa possa pensare, della missione, la gente che vive nelle capanne intorno, è invece meno chiaro. Cosa veda in quell'edificio alto come una montagna, ricco di mosaici colorati. Più in basso l'orto è rigoglioso, magari ci sono filari di vite. Giù nella piana il campo di calcio vuoto è circondato di alti eucalipti, su una tavola di legno inchiodata a un tronco sono incise a fuoco le parole "Steve Biko Stadium". È raro che la missione si discosti da questo modello, anche nelle grandi città dove invece che alberi ci sono baracche, dove gli spazi sono angusti e allora c'è solo una rete da pallavolo, ma le ragazze stanno giocando a tutte le ore del giorno e intorno c'è un muro molto alto fortificato dai cocci di bottiglia, perché una grande città è pericolosa anche per un prete. Certo, poi ci sono i Piccoli Fratelli, per fare un esempio, che le loro chiese se le costruiscono col fango e con le mani. O coloro che hanno scelto di vivere nelle bidonville di ogni parte del mondo: e sono i più interessanti. Ma comunque e dovunque sia, l'impatto di una missione cristiana sulla porzione di umanità che la circonda è sempre devastante: e non uso questo termine in senso negativo. Dove non c'è né stato né privato la presenza missionaria sa indurre trasformazione, sviluppo. Crea attorno a sé un indotto a onde concentriche. Diventa motore, iniziativa. Certo, noi sappiamo che il vero motore, la fonte di finanziamento e attività, stanno però altrove, ancora nel nord del mondo. 2) È il guaio degli aiuti allo sviluppo, credo: la cooperazione internazionale con i paesi del sud del mondo porta spesso strutture, tecnologie, mezzi, ma raramente riesce a lasciare dietro di sé formazione e attività economiche stabili. Ho sentito spesso i cooperanti raccontare aneddoti su centinaia di trattori inutilizzabili dopo pochi mesi di mancata manutenzione, su impianti industriali che smettono di funzionare non appena partono i donors bianchi. Il missionario, a differenza del cooperante e dell'esperto Onu, resta. La sua presenza ha continuità: e la sua attività non è limitata ali' assistenza tecnica e materiale, perché il missionario è lì per trasmettere valori, stili di vita, comportamenti: porta la parola di Dio. Evangelizza. In questo senso la sua attività di operatore sociale -perché tale mi appare la sua presenza - si differenzia da quella del cooperante il quale non sente la necessità di trasmettere un sistema di valori ma tende a limitarsi a fatti tecnici. Il missionario ha alle sue spalle il cristianesimo, base portante della sua attività che si incarna di volta in volta nei laboratori artigianali, negli ospedali e nelle scuole. Non è poco: è la sua forza.
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