Linea d'ombra - anno X - n. 69 - marzo 1992

STORIE/SALAMOV Siamo in quarantena per il tifo, , ma non ci fanno stare con le mani in mano. Ci spediscono al lavoro senza fare l'appello, ci contano, infile di cinque, alla porta del campo. aringhe del mare di Ochotsk non sono per niente grasse e questi movimenti delle dita sono semplicemente l'attesa del miracolo, non potevi poi fare a meno di abbracciare con una rapida occhiata le mani di coloro che stavano attorno e che, a loro volta, ti stavano guardando; anch'essi tastano e ritastano il pezzo d'aringa, temendo di far troppo presto a inghiottire la coda tutta appoltigliata. L'aringa non si rriangia. La lecchi, la lecchi e la coda poco a poco ti sparisce tra le dita. Restano le lische e allora mastichi le lische con attenzione, le mastichi con parsimonia, le lische si spappolano e scompaiono. Poi si passa al pane, vengono dati cinquecento grammi al mattino e devono bastare per tutta la giornata; spilluzzicandolo, ne fai dei piccoli pezzi e li metti in bocca. Il pane lo mangiano tutti, subito, così nessuno lo ruba e nessuno te lo strappa; d'altronde non c'è chi ha la forza di metterlo da parte. Non era necessario far presto, non dovevi berci dell'acqua non lo dovevi masticare. Dovevi succhiarlo come fosse zucchero, come una caramella. Poi potevi prendere un pentolino di tè: acqua tiepida, colorata dalla crosta bruciacchiata del pane. Finisci di mangiare l'aringa, finisci di mangiare il pane e di bere il tè. Improvvisamente senti caldo e non hai voglia di andare in nessun posto, hai voglia di sdraiarti, ma invece devi vestirti, indossare il giaccone tutto buchi, che ha fatto anche da coperta, legare con una cordicella la suola dei burki imbottiti di ovatta, tutti rotti, che ti hanno fatto da guanciale; devi fare alla svelta, perché le porte sono già spalancate e al di là del filo spinato del piccolo cortile c'è già la scorta con i cani. Siamo in quarantena per il tifo, ma non ci fanno stare con le mani in mano. Ci spediscono al lavoro, senza fare l'appello, ci contano, in file di cinque, alla porta del campo. C'è un sistema abbastanza sicuro per andare a finire a un lavoro relativamente vantaggioso. Ci vuòle soltanto pazienza e padronanza di sé. Un buon lavoro è sempre quello che affidano a poche persone: due. tre, quattro. Il lavoro che richiede venti, trenta, cento persone è un lavoro pesante, per lo più lavoro di sterro. E sebbene non comunichino mai in anticipo al detenuto il luogo di lavoro, egli lo viene a sapere quando è già in marcia; in questa tremenda lotteria la fortuna arride a chi ha pazienza. Bisogna allora stare indietro, senza farsi vedere, nelle altre file; farsi da parte e balzare avanti solo nell'istante in cui viene formato un piccolo gruppo. Per i gruppi un po' più consistenti il lavoro migliore è la cernita della verdura nel magazzino, il panificio, in una parola tutti quei luoghi dove il lavoro è legato al cibo, presente o futuro; là vi sono sempre avanzi, scarti, tagli di roba da mangiare. Ci avevano messo in fila e ci conducevano per una strada fangosa com'è nel mese d'aprile. I piedi dei soldati di scorta affondavano con un rumore gagliardo nelle pozzanghere. A noi, all'interno della città, non era permesso di rompere i ranghi per aggirare le pozzanghere. Avevamo i piedi mezzi, ma non ci si faceva attenzione: il raffreddore non faceva paura. Ci eravamo già raffreddati migliaia di volte e in questo caso la cosa più minacciosa e più brutta che ci poteva succedere, mettiamo una polmonite, ci avrebbe condotto al tanto desiderato ospedale. Un mormorio confuso si levava di tanto in tanto nelle file: «Al panificio. Ascolta, ci portano al panificio». Ci sono persone che sanno sempre tutto e sempre tutto indovinato. Vi sono poi quelle che vogliono vederci più a fondo in ogni cosa. Per altri invece tutto va per il peggio e ogni miglioramento viene da loro accolto con incredulità come fosse un errore del destino. Le nostre più audaci speranze si realizzavano: eravamo davanti al panificio. Venti uomini con le mani ficcate dentro le maniche battevano i piedi per terra, con la schiena curva sotto il vento penetrante. I soldati di scorta, in disparte, fumavano. Da un portello che si apriva nel grande portone uscì un uomo senza berretto, con una gabbanella blu. Parlottò con gli uomini della scorta e si avvicinò a noi. Lentamente ci passò in rassegna con un'occhiata: La Kolyma fa di ciascuno uno psicologo: in un solo minuto si devono intuire moltissime cose. In mezzo a venti straccioni bisogna sceglierne due per lavorare al panificio, 'in fabbrica'. Occorre che questi uomini siano un po' più robusti per poter portare le barelle con i mattoni rotti che erano rimasti lì dopo i lavori di restauro del forno. Non devono essere blatnye, perché in tal caso perderanno tutta la giornata in incontri di ogni genere, in scambi di messaggi, senza fare assolutamente nulla. Bisogna che uno non abbia passato il limite oltre il quale un uomo diventa ladro per fame, perché in officina non ci sarà nessuno disposto a punirlo. Bisogna che non siano «soggetti inclini ali' evasione», bisogna ... Si deve leggere tutto questo in venti visi di detenuti, in un solo minuto e al tempo stesso si deve scegliere. - Vieni fuori tu - mi disse l'uomo senza berretto- . E tu - indicò il mio vicino con la faccia tutta chiazzata, un saccentone. - Ecco, prendo questi - disse alla guardia di scorta. - D'accordo - rispose questo con indifferenza. Ci accompagnarono occhiate d'invidia. Mai negli uomini i cinque sensi si mettono a funzionare immediatamente con identica tensione. Così anche ora varcando le soglie del panificio, stavo in piedi, senza vedere le facce bonarie e piene di simpatia - degli operai: qui lavorano detenuti ed ex-detenuti. Non udiv~ le parole del capoofficina, l'uomo senza berretto che c1 spiegava come avremmo dovuto portare via in strada i 39

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