STORIE/S4LAMOV scrivere) i suoi versi, le parole tuttavia spuntavano, leggere, in un ritmo ben definito e ogni volta insolito. Da lunghe ore giaceva immobile e improvvisamente, non lontano da sé, vide. qualcosa che somigliava a un bersaglio o a una carta geologica. Era una carta muta e meticolo$arnente cercava di decifrare quel che vi era rappresentato. Passò poco tempo, finché capì che si trattava delle sue dita. Sulla punta delle dita restavano ancora le traccemarrone delle sigarette di machorka fumate fino in fondo, succhiate; sui polpastrelli si distingueva chiaramente il disegno dattiloscopico, come il tratteggio di un rilievo montuoso. n disegno era identico in tutte le dieci dita, cerchi concentrici simili agli anelli degli alberi. Ricordò che una volta, quand'era piccolo, lo fermò in un viale un cinese uscito da una lavanderia che si trovava nello scantinato della casa dove era cresciuto. Il cinese gli prese a caso una mano, poi l'altra, rivolse le palme in alto e con voce eccitata gridò qualcosa nella sua lingua. Si venne a sapere che aveva annunciato la felicità al bambino che possedeva un segno sicuro della fortuna. Questo segno della felicità il poeta lo ricordò più d'una volta quando stampò il suo primo libretto. Sì, aveva indovinato qualcosa di quello che lo aspettava. Durante la traduzione il poeta era riuscito a capire molto, o meglio; a indovinare. Ed era contento, contento della sua spossatezza e sperava di morire. Ricordava una discussione fatta in carcere tempo prima: cos'era peggiore, il campo o la prigione? Nessuno lo sapeva esattamente; ricordava anche con quanta crudeltà sorrideva un uomo trasferito allora allora dal campo alla prigione. Ricordò sempre il sorriso di quell'uomo, tanto da aver paura di quel ricordo. · Pensate con quanta astuzia li ingannerà, quelli che lo hanno spedito qui per dieci anni interi, se morirà ora. Era già stato in esilio molti anni prima e sapeva che ormai era stato registrato in liste speciali, per sempre. Per sempre? Le regole venivano cambiate e le parole mutavano senso. Sentì di nuovo le forze che ricominciavano ad affluire, un vero flusso; un flusso di molte ore. D'un tratto gli venne voglia di mangiare, ma non aveva forze per muoversi: lentamente, a fatica ricordò di aver dato la minestra del giorno a un vicino, che il pentolino d'acqua bollente era stato i 1 suo unico pasto il giorno prima. Eccetto il pane, s'intende. Ma già da molto gli avevano dato il pane. Quello del giorno prima glielo avevano rubato. C'era ancora qualcuno che aveva la forza di rubare. Così giacque, leggero, senza pensieri, finché non fece gior- . no. La luce elettrica si fece appena più gialla e su grandi vassoi di compensato portarono il pane, come_lo portavano ogni giorno. Ma non si eccitava, n<?ncercava coh lo sguardo il cantuccio di pane, non piangeva se il cantuccio non gli toccava, non si cacciò in bocca con le mani tremanti il 'supplemento'; il supple1nentosi scioglieva subito in bocca, le narici si dilatavano ed egli con tutto il suo essere, sentiva il sapore e l'odore del pane fresco di segale. No, ora niente lo eccitava. Ma quando gli misero in mano la sua razione giornaliera, la strinse con le sue mani esangui e premette il pane sulla bocca. Morse il pane con i denti di chi aveva lo scorbuto, le gengive sanguinavano, i denti tentennavano, ma lui non sentiva dolore. Con tutte le forze premette il pane sulla bocca, ce lo cacciò dentro, lo succhiellò, lo ruppe e lo rosicchiò ... 38 I vicini lo fermarono ... - Non mangiarlo tutto, meglio che lo mangi dopo ... Il poeta capì. Spalancò gli occhi, senza lasciarsi sfuggire dalle dita sporche e azzurrognole il pane macchiato di sangue. - Quando dopo? - sillabò distintamente chiudendo gli occhi. Verso le sei il poeta morì. Ma lo 'registrarono' due giorni dopo; per due giornate i suoi vicini ingegnosi sarebbero riusciti a farsi dare, durante la distribuzione del pane, la razione del morto; con il morto che teneva alzato un braccio, come una marionetta. Il pane L'enorme porta a due battenti si spalancò e nella baracca dei transitanti entrò l'uomo addetto alla distribuzione. Si fermò in un raggio di luce mattutina riflessa dalla neve azzurro-argentata. Duemila occhi si appuntarono su di lui da ogni parte: dal basso, da sottp il pancaccio, davanti, di fianco e da sopra dall'alto dei qu·attropiani di pancacci disposti a castello su cui si arrampicavano coloro ai quali era restata ancora un po' di forza. Oggi toccava l'aringa e dopo l'addetto alla d_istribuzioneveniva un enorme vassoio di compensato curvo sotto il peso di una montagna di aringhe divise in due parti. Dopo il vassoio veniva il sorvegliante di turno, in un bianco pellicciotto di pelle di pecora ben conciata, splendente come il sole. Distribuivano alla mattina, un giorno sì e uno no, metà aringa. Centinaia di uomini ripetevano in un fitto mormorio la stessa parola: le code, le code. Un comandante intelligente che teneva conto della psicologia dei detenuti aveva disposto che nello stesso mattino si distribuissero, separatamente, o le teste o le code delle aringhe. Più di una volta avevamo discusso i vantaggi delle une o delle altre: la coda, a occhio, era più carnosa, ma le teste davano molta più soddisfazione: potevi succhiare le branchie, ripulire testa e cartilagini. Ci venivano date aringhe non pulite, ma la cosa non ci dispiaceva, anzi, mangiavamo pelle e lische. Il vassoio si avvicinava: era il momento più emozionante: quanto sarà grande il pezzo d'aringa che ci toccherà, cambiarlo era impossibile, protestare anche; il successo dipendeva dalle mani. Un uomo che taglia le aringhe in due parti senza attenzione, non sempre capisce ~ e lo ha dimenticato - che dieci grammi in più o meno possono portare a un dramma, a un dramma sanguinoso, forse. Delle lacrime nemmeno si parla: sono lacrime, tutti le capiscono e poi non si ride di chi piange. Mentre l'uomo della distribuzione si avvicinava, ognuno cercava di calcolare quale pezzo gli avrebbe porto quella mano indifferente. Ognuno arrivava al punto di amareggiarsi, rallegrarsi, gridare al miracolo o toccare il fondo della disperazione, se si accorgeva di essersi sbagliato nei suoi calcoli frettolosi. C'era chi chiudeva le palpebre, vinto dall'emozione, e le riapriva solo nell'istante in cui l'inserviente lo toccava e gli allungava la sua parte d' aringa. Afferrata l'aringa con le dita sporche, la tastavi, la stringevi con movimento rapido e delicato, per stabilire se ti era toccata la parte magra o quella grassa - del resto le
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