Linea d'ombra - anno X - n. 69 - marzo 1992

Roman Romanovic Romanov morì sotto i miei occhi. Un tempo era stato, da noi, qualcosa come un comandante di compagnia, distribuiva i pacchi, si occupava della pulizia nella zona del lager; insomma, era in una posizione privilegiata quale nessuno di noi, 'cinquantotto', e literki, come dicevano i blatnye, o literniki, come dicevano i più alti funzionari del lager. Il nostro sogno più grande era quello di diventare lavandai ai bagni, oppure sartorammendatore di nrtte. Ma a parte le pietre, tutto ci veniva proibito dalle «disposizioni speciali» di Mosca che figuravano nei fascicoli di ciascuno di noi. Ed ecco che Roman Romanovic si vide assegnato un incarico tanto inaccessibile. E fece anche presto a penetrarne i segreti: come aprire una cassetta alla consegna dei pacchi e farne cadere a terra lo zucchero. Come rompere un barattolo di conserva, come far rotolare sotto il banco biscotti e frutta secca. Tutto questo Roman Romanovic lo imparò presto; con noi non intratteneva alcun rapporto. Era rigidamente ufficiale e si comportava come un cortese rappresentante di quell'alto comando con cui noi non potevamo avere alcun contatto personale. Non ci dava mai alcun consiglio. Si limitava a spiegare: si può ricevere una lettera ai mese: i pacchi vengono consegnati dalle 8 alle 10 presso il comando dei lager e via di questo passo ... Non invidiavamo Roman Romanovic; solo che eravamo stupiti. Evidentemente c'era di mezzo una qualche casuale conoscenza personale di Romanov. Inoltre per un periodo non lungo, in tutto due mesi, fu comandante di compagnia. Che sia avvenuta l'abituale verifica del personale - questi controlli vengono effettuati periodicamente e all'inizio dell'anno sono obbligatori - , o che qualcuno abbia soffiato, per usare una colorita espressione del lager; fatto sta che Roman Romanovic sparì. Era un funzionario dell'esercito, un colonnello, sembra. Ma ecco che quattro anni dopo capitai in una squadra inviata in missione a «raccogliere vitamine»: si dovevano raccogliere foglie di mugo, l'unica pianta sempre verde di questi luoghi. Queste foglie le trasportavamo per molte centinaia di versty alla fabbrica di vitamine. Là venivano bollite e così le foglie si trasformavano in una densa poltiglia marrone, dall'odore e dal gusto insopportabili. La versavano nelle botti e la distribuivano nei campi. La medicina locale di allora la riteneva il principale rimedio contro lo scorbuto, d'uso universale e obbligatorio. Lo scorbuto infuriava e con esso la pellagra e altre forme di avitaminosi. Ma tutti coloro cui toccava ingozzare una sol'a goccia di questa tremenda mistura, erano d'accordo nel ritenere che fosse meglio morire piuttosto che curarsi con un prodotto così diabolico. Ma era un ordine e l'ordine è un ordine e nel lager non si deve dar da mangiare fino a che non si è ingozzata la nostra razione di medicina. Il piantone di turno si metteva lì in piedi con un piccolo speciale ramaiolo: era impossibile entrare nella mensa evitando il distributore di mugo, e proprio la cosa che il prigioniero aveva particolarmente a cuore, il cibo, era guastata itTeparabilmente da questo aperitivo obbligatorio. La cura durò più di dieci anni... I medici più preparati non erano tanto convinti che la vitamina C potesse conservarsi in quell'impasto viscoso, sensibilissima com'è a ogni sbalzo di temperatura. I benefici di questa cura non si vedevano, ma si seguitava a somministrare la sostanza. Negli stessi luoghi, proprio tutt'intorno al villaggio, c'erano una quanSTORIE/SALAMOY tità di rose canine, ma nessuno aveva ordinato di raccogliere rose canine, nelle disposizioni non se ne parlava affatto. Solo molto tempo più tardi, dop0 la guerra, nel 1952 mi pare, le autorità mediche locali inviarono di bel nuovo una lettera in cui categoricamente veniva proibita la somministrazione di succo di mugo, in quanto agiva rovinosamente sulle reni. Ma al tempo in cui conobbi Romanov, il mugo veniva raccolto dappertutto. Lo raccoglievano i dochodjagi, gli scarti della miniera, i rifiuti del filone d'oro, i seminvalidi, gli affamati cronici. In tre settimane l'oro trasformava uomini sani in invalidi: la fame, la mancanza di sonno, un lavoro pesante di molte ore, le botte ... Nella brigata 'incorporavano' i nuovi arrivati e Moloch masticava. Alla fine della 'stagione' dell'oro nella brigata non ci restò nessuno, eccetto il caposquadra lvanov. Gli altri finirono all'ospedale 'sotto il monte' e nelle spedizioni 'vitaminiche', dove non si distribuiva più d'un pasto e di 600 grammi di pane al giorno. Quell'autunno io e Romanov non lavoravamo alla raccolta delle foglie; eravamo occupati nell"edilizia'. Ci costruivamo una casa per l'inverno: d'estate si viveva in tende piene di buchi. Delimitammo, a passi, uno spiazzo, fissammo tutt'intorno una non spessa siepe di pali in doppia fila e ne riempimmo gli spazi intermedi con mucchi gelati di muschio e di torba. All'interno sistemammo dei pancacci a castello, a un solo piano, otte~ con ·assi di legno, in mezzo mettemmo una stufa di ferro. Ogm notte ci veniva data una quantità di legna fissata approssimativamente. Non avevamo né una sega, né un'ascia: gli oggetti acuminati, di notte erano custoditi nei locali delle guardie che abitavano per conto proprio in una baracca riscaldata e rivestita di compensato. Le seghe e le asce venivano consegnate la mattina soltanto, prima di essere avviati al lavoro. Il motivo era che nella vicina brigata 'vitaminica' alcuni blatnye avevano aggredito il capo. I blatnye erano straordinariamente portati ad assumere, nella vita d'ogni giorno, atteggiamenti teatrali, in modo tale da fare invidia a Evrejnov. Avevano deciso di uccidere il capobrigata e la proposta di uno di Joro, di segargli la testa, fu accolta con entusiasmo. La testa venne segata con una normale sega a telaio. Fu così che venne data disposizione di proibire ai detenuti di tenere in consegna seghe e asce durante la notte. Perché di notte? Nessuno cercava mai una logica nelle disposizioni. Come tagliare la legna in modo da far scivolare i ciocchi dentro la stufa? Quella più fine veniva spezzata tenendola tra le gambe, mentre quella grossa veniva introdotta, così com'era, attraverso le estremità un po' più sottili, nello sportello della stufa e bruciava poco alla volta. Di notte qualcuno finiva per ficcarla dentro: c'era sempre qualcuno che di notte vegliava. La luce che usciva dallo sportello della stufa era anche l'unica luce della nostra casa. Finché non cadde la neve la casupola era percorsa dal vento da un angolo all'altro; quando poi la neve si ammucchiò intorno alle pareti, noi la cospargemmo d'acqua e il nostro rifugio perl'inverno fu pronto. La porta era chiusa a mo' di tenda da uno straccio di tela incatramata. Fu in questo tugurio che incontrai Roman Romanovic. _Nonmi riconobbe. Era vestito come sempre, accuratamente, tutto 'fiammante', come dicono i blatnye, ma brandelli di ovatta uscivano fuori dal giaccone, dai pantaloni, dal berretto. Non di rado a Romanov Romanovic era toccato di correre a 35

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