CONFRONTI consapevolezza che "il nostro domani era già ieri da sempre" I. Una sera come tante), si fa prigione e malattia ( '.'mi gratto a queste sbarre sperando / che la mia pelle duri più della mia scabbia": Ragionamenti); l'iniziale senso di colpa si trasforma in accidioso peccato ("La colpa è un guscio, io ci sto dentro": Rappresentazione di sé), si riconosce in male congenitamente oggettivo: Il male dei creditori, come suona il titolo della raccolta centrale (1977) della produzione di Giudici. · Tuttavia, come ha scritto Zanzotto, "lesso e stinto quanto certi personaggi kafkiani ma senza enigmi o scalee simboliche alle spalle, andato a male, perduto nell'aritmia - monotona - di una pseudostoria che è tutta velleità e residui di miti, questo tipo umano percepisce tuttavia il procedimento per cui lo si manovra e oggettualizza, non ha ancora l'acida freddezza della generazione successiva". Rappresentare infatti le meschinità del mondo dei vivi (e rifugiarsi di conseguenza nel pensiero della morte: Il ristorante dei morti sarà il suo volume successivo, 1981), così come mettere in mostra i propri difetti, è ancora un segno di denuncia e di resistenza,. e la poesia si fa continuamente ribalta di questo grottesco spettacolo convinta, quanto meno, del proprio valore testimoniale. Certo, anche il linguaggio è una maschera, e la poesia è teatro non meno della vita stessa (altro titolo quanto mai significativo è Prove del teatro, 1989): se vi avranno posto tenerezza e pensosità, se il dolore e la speranza ne saranno il lievito vero, mai bisognerà abbandonarvisi. Consapevole di ciò, timoroso- forse-di lasciarsi altrimenti "andare", anche nei suoi componi menti più complessi e impegnati Giudici non rinuncia ai procedimenti caricaturali e coltiva della lirica un'idea "impura", che gioca continuamente su un pluristilismo anch'esso "grottesco", un linguaggio mescidato che, lungi dall'abolirle, vuole mettere in musica le scorie relegate di solito all'ambito prosastico del discorso. La sua forza poetica si misura anzi sulla capacità di riscattare queste scorie, di rivelare la portata simbolica delle situazioni anche più banali attraverso l'invenzione linguistica: un'invenzione che non è già fine a se stessa ("novità del tutto esterna con cui si tenta di mascherare l'inesistenza di una scoperta autentica", come ha scritto lo stesso Giudici), ma è la vera e propria arma dello scrittore, il suo modo di colpire e quindi di provocare la riflessione di chi legge. È sostanzialmente in due modi che Giudici persegue lo straniamento del lettore: attraverso il riferimento a realtà tradizionalmente escluse dall'ambito lirico (le "scorie", appunto, ridotte in alcuni casi a termini tanto crudi quanto espliciti), e attraverso l'uso sapientemente articolato di contrassegni invece tradizionali del discorso poetico, come quelli di uno strofismo musicalmente caratterizzato e in particolare della rima. Due modi di segno quasi opposto, e perciò ancora più significativi nel loro abbinamento, tanto più che, nella storia poetica del dopoguerra, è stato solo Pasolini a farli oggetto di una non divisa attenzione. Pasolini, tuttavia, era più interessato al primo che al secondo dei due, e a svolgere attraverso la poesia un discorso critico piuttosto che a dare spazio alle possibilità critiche del linguaggio poetico stesso. Giudici è invece sul secondo versante che opera preferibilmente, convinto che la poesia costituisca un modo di raggiungere verità altrimenti inarrivabili, e che proprio la continua invenzione del suo linguaggio dischiuda prospettive che la nostra razionalità non potrebbe altrimenti cogliere. Se infatti "non possiamo non scrivere che il vero", egli afferma al tempo stesso che occorra "attuare un'improbabile, improgrammabile e tuttavia sublime coincidenza tra il 'vero' delle nostre intenzioni poetiche e quello dello 'strumento' di cui ci serviamo per realizzarle, tra il 'vero' dell'intelletto o della coscienza e il 'vero' della lingua", tenendo anzi presente che la lingua "non è 'strumento', bensì 'co-autrice' della poesia al cui farsi mirano le nostre ambizioni o i nostri progetti, e che questa poesia, o poema, molto probabilmente pre-esiste, nel magmatico profondo della lingua, alla nostra stessa occasione/intenzione di scrittura". L'affermazione sembra piegare, concludendosi, verso im misticismo che non tutti si sentiranno di sottoscrivere; ma intesa nei giusti termini essa è solo riconoscimento della specificità della poesia, del quid inequivocabile che essa aggiunge alla logica razionale del discorso e di cìò che la lingua cela per ragioni storiche e antropologiche nelle sue concrezioni semantiche e grammaticali Semmai vi sarà da annettere il significato di una dichiarazione di poetica, perché gli anni Ottanta in cui quelle parole si collocano non sono solo quelli del riflusso (né in Giudici è venuto mai meno l'impegno intellettuale e la coscienza critica), ma quelli che vedono il poeta intento alla composizione di Lume dei tuoi misteri prima (1984), e poi di Salutz (1986), opere in cui (e soprattutto nella seconda) proprio la lingua diventa banco di prova per quella che appare a tratti l'ineffabile (perché complessa e contorta, esaltante e contraddittoria, fangosa e splendida) realtà dell'amore: "Linguazebra/ Minne che meno intendo più che odo/ Lingua amèba/ Tintinno trappola e chiodo/ Soavissimo sì, voi quasi voce/ Del non-mai-più del quale foste eco/ E morso che al gibetto d'una croce/ A questa latomìa vostra latèbra/ Pur mi stringeste dove non spartisco/ Candida stria da negra:/ Per unghia e dente insisto/ Cieco alla vista strana/ Al mai disfatto nodo onde insanisco/ En plana lengua romana". Il poeta è affascinato dall'oscurità di questo mondo insondabile e cerca di dominarne l'incomprensibile linguaggio ("linguazebra"), ora lasciandosi trasportare dalle sue inedite associazioni, ora estraendone grumi di più intenso significato, lampi che illuminano le segrete ragioni di cecità e pazzia, anche se non sempre queste ragioni si compongono in discorso. Il suo è comunque un tentativo di portare "alla luce", un resistere ali' assedio che lo stringe conservando intatte la propria capacità di giudizio e la possibilità di vivere davvero pienamente una vita altrimenti spesa "a parare tanti colpi" (Persona femm.inile ). Su questo tema è costruito Fortezza, ultimo libro organico di· Giudici (1990) e sforzo felicemente riuscito di riportare a un livello di più comunicabile esperienza, senza negarne le incandescenti potenzialità, il linguaggio di Salutz. La sezione che dà il titolo al volume, infatti, compone secondo modi ormai consolidati di Giudici (la narrazione "per frammenti") una storia che sembra riassumere emblematicamente quella tutta del personaggio-poeta e dare voce al tempo stesso alla storia di tutti noi, esiliati o imprigionati da aguzzini tanto occhiuti quanto improbabili, rigidi e potenti tanto che solo la nostra paura li rende tali. "Resistere" è l'unica "carta" che appare possibile giocare, l'unica che la fortezza nostra possa opporre alla fortezza in Cl!i siamo rinchiusi: resistere magari fino a "giocarsi la vita", perché possa la vita stessa assumere finalmente un senso. Per il poeta, luogo privilegiato di questa resistenza è naturalmente la poesia, ed ecco che in questa luce· potranno meglio apparire l'importanza e il significato dell'ultima fase, così complessa e oscura,. così ricca e pure. così inafferrabile, del lavoro di Giudici. Si tratta infatti di esercitare la resistenza non solo contro la violenza e le tentazioni del mondo esterno, ma contro una logica e un sitema di cui noi stessi siamo, per quanto involontaria, parte, e che il nostro linguaggio e i nostri gesti quotidiani non fanno che confermare. Superare tutto questo, superarsi, è forse uno sforzo troppo grande per le nostre capacità; ma scavare in questo linguaggio per liberarlo da schemi· e incrostazioni, costringerlo a sganciarsi · dalla logica semplicemente formale che spesso lo avvilisce e portarlo, attraverso gli ironici artifici della retorica, a esprimere le istanze segrete di un più autentico io, questo può e deve essere il compito di "resistenza" della poesia: ed è il compito che; senza cedere all'ambigua esaltazione dell'inconscio cui troppi si sono dati nei nostri anni, sembra essersi proposto Giudici.
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