Linea d'ombra - anno X - n. 69 - marzo 1992

CONFRONTI Il teatro della vita Sulla poesia di Giovanni Giudici Edoardo Esposito "Ma cosa vuole con questi lamenti questo/ qui - le solite la vita in versi/ raccontando storie che rincasando/ avendo egli una casa ovvero uscendo/ questa avendo una porta sulla strada che porta/ dove una strada può portare purché/ la strada non sia morta ..." Così, con una improvvisata e sarcastica tiritera, Giovanni Giudici liquidava, ad apertura del suo secondo libro di versi (Autobiologia, 1969), l'esperienza del suo primo, appunto intitolato La vita in versi, assumendo il tono di chi, da una scena letteraria dominata dai clamori neoavanguardistici, lo riduceva a sequela di "solite" e realistiche "storie", oltretutto costruite in "versi" che riemmeno esitavano a dichiararsi tali. Eppure La vita in versi era di soli quattro anni prima: non certo ignara quindi, di rapide evoluzioni sociali non meno che linguistiche, di miracoli economici e di sperimentalismi culturali:. davvero la si poteva classificare come prodotto di un neorealismo attardato, o come voleva qualcuno addirittura di un neocrepuscolarismo? ed era davvero una palinodia quella che Giudici pronnnciava nel momento stesso del suo riproporsi all' attenzione del p~bblico, e del suo dichiarato intento di scavo interiore, di discesa agli inferi addi'rittura "biologici" della sua esistenza? Certo il 1969 non era precisamente un anno di tranquilli accadimenti, e doveva necessariamente prenderne atto un poeta che non fosse un arcade. Doveva, anche se tutt'altro che superate erano le speranze e le istanze che pochi anni prima gli avevano fatto scrivere: "Metti la vita in versi, trascrivi/ fedelmente, senza tacere/ particolare alcuno, l'evidenza dei vivi". Ma, per Giudici, non si trattava di mutare pelle, e non c'era bisogno di alcuna palinodia; c'era, semmai, da insistere ulteriormente su quei "particolari" capaci di esprimere senza pudori "l'evidenza dei vivi"; c'era da appuntire il proprio stilo, da incidere più fortemente i ritratti perché si deformassero in caricatura, e il realismo di Courbet diventasse il sarcasmo di Daumier. Non mancava nulla, nell' atélier di Giudici, per realizzare questo trapasso: e dirlo significa ridimensionare il senso del passaggio stesso, e riconoscere la continuità profonda che lega il lavoro tutto di questo poeta, pur nelle fasi diverse che la sua ricerca ha via via scandito. Fasi che oggi possiamo ripercorrere, nella ricchezza delle loro implicazioni e nell'importanza che oggettivamente rivestono per la storia poetica contemporanea, grazie alla pubblicazione di due cospicui volumi della collana garzantiana degli "Elefanti": Poesie (1953-1990). Il primo volume si apre appunto con La vita in versi, prima raccolta organica dell'autore ma non primo segno della sua originalità, della miscela agrodolce dei suoi affetti e dei suoi risentimenti, delle sue convinzioni e delle sue ansie: a formarne il nucleo è infatti un gruppo di componimenti intitolati ali' Educazione cattolica che erano già apparsi nel 1963 in una plaquette edita da Schei willer e che proprio per la loro soffe1ta ma tagliente lucidità avevano saputo farsi apprezzare. Vi si coglie tuttora, in immagini per lo più di rapida evidenza, il concreto tradursi in ipocrisia quotidiana di un insegnamento votato in teoria ad una superiore pietà, e il disarmato stupore che ne consegue per chi a quell'insegnamento abbia creduto e voglia credere, condannato perciò a una diversità che lo rende inevitabilmente "agnello, lepre di cartapesta/ ai morsi dei veltri". Di tutta quella religione resterà al poeta il senso di un imperativo 26 sostanzialmente antifrastico benché morale: quello di "scrivere versi cristiani in cui si mostri/ che mi distrusse ragazzo l'educazione dei preti", e insieme un senso di colpa che proprio alla matrice cattolica è facile ricondurre, sebbene appaia legato a traumi anche diversi di origine infantile (determinante quello da "figlio del debitore" che nei versi di Piazza Saint-Bon trova viva espressione: "Per il mio padre pregavo al mio Dio / una preghiera dal senso strano:/ rimetti a noi i nostri debiti / come noi li rimettiamo"). È comunque in questa sezione che meglio si compongono le due tendenze dominanti dell'intera raccolta: quella ("sociologica", potremmo dirla) che da situazioni e problemi della realtà del dopoguerra (e della società del benessere in particolare) prénde spunto e ragione spesso polemica, e quella "autobiografica" che darà voce fin nelle ultime raccolte ai momenti più lirici della poesia di Giudici. E se proprio a quest'ultima è possibile fin dall'inizio riconoscere una più compiuta espressione (appesantita, l'altra, da un raccontare minuto, da un argomentare troppo diffuso), è"tuttavia dalla compresenza di entrambe e dalla loro interdipendenza che questi versi traggono il loro inconfondibile accento. Non sarà mai una dimensione "privata", infatti, quella della scrittura di Giudici, nemmeno quando sarà in primo luogo rivolta, come in Salutz (1986), a scandagliare la privatissima realtà dell'amore. Scrivere è sempre per lui un-cercare, un interrogarsi, una riflettere sul mondo e sul proprio muoversi nel mondo che si fa a tratti confessione impietosa ("Mia sola scienza è anàmnesi del mio errore,/ la speranza cristiana mia viltà,/ mia mancanza di fede l'uso di ragione"), ma che soprattutto sa avvalersi del registro dell'ironia e cogliere gli aspetti farseschi del vivere, la tragicommedia quotidiana per cui "sul trespolo ci recitiamo / maestri della parte che fingiamo". Per questa via, è stato detto, Giudici perviene alla negazione del tradizionale io lirico, e dà forma piuttosto a un linguaggio drammaticamente impostato e a vere e proprie "rappresentazioni", alle quali il poeta partecipa come personaggio fra gli altri (si vedano perfino i titoli: Descrizione della mia morte, Rappresentazione di sé nell' atto di rappresentarsi colpevole e compiacente), o nelle quali, eclissandosi, presta ad altri la propria voce, come nelle bellissime serie intitolate La Bovary c' est moi e più tardi Persona femminile. Non si tratta in realtà, neanche in questi casi, di una vera abdicazione, quanto dell'uso di una "maschera" che permette al poeta di oggettivare i propri sentimenti e di trovare (nel pieno di un Novecento in cui sembravano ormai scritti - se non letti -"tutti i libri") una propria originalità e libertà espressiva. Al rischio dell 'elegia e del patetico di un Pascoli pur amato, Giudici oppone l'antidoto di un'ironia gozzaniana e degli sberleffi palazzeschiani; al lirismo "alto" di un Montale (pur seguito così da vicino nelle primissime poesie), la quotidianità di Saba. Ne esce un personaggio che ha fatto pensare in prima istanza a Charlot, ma che il passare del tempo ha confermato più negli aspetti tragici che in quelli comici,.rendendo sempre più amaro il suo ruolo di forzato attore. Già in Autobiologia la scena comincia a mutare, le tinte si fanno più crude, e in O beatrice (1972) il linguaggio stesso mima qua e là, con le sue forme litaniche, con il disarticolarsi della struttura discorsiva, il labirinto entro il quale il personaggio si aggira. La

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==