IL CONTESTO egli stava esaltando una concezione del mondo assolutamente occidentale, con poche concessioni per ciò che era africano o latino-americano o indiano, le sue parole lasciano filtrare l'idea che neanche l'identità inglese o europea fosse sufficiente, che non era il meglio che l'educazione potesse trasmettere. Certo è difficile trovare in Newman concessioni ad altro che alla specializzazione e all'estetismo aristocratico. Ciò che egli si aspetta dall'accademia è "il potere di vedere contemporaneamente molte cose come un tutto, o di riferirle correttamente al loro posto nel sistema universale, di comprendere i loro rispettivi valori e di determinare i loro reciproci rapporti". Questa sintetica interezza ha un'importanza speciale per le situazioni cariche di conflittualità politica, per le tensioni e le disparità sociali e morali costitutive del mondo accademico attuale. Egli propone una visione ampia e generosa delle diversità umane. Collegare, all'interno dell'accademia, la pratica educati va - e per estensione 1 'educazione alla libertà - direttamente alla disposizione dello scenario politico o a un riflesso ugualmente immediato dei conflitti nazionali reali non significa certo perseguire la conoscenza né educare noi stessi o i nostri studenti, secondo quello che dovrebbe essere sempre uno sforzo infinito di comprensione. Ma cosa succede quando prendiamo le formule di Newman sul vedere. molte cose come un tutto o, riferendo separatamente ciascuna di esse al proprio posto nel sistema universale, e trasportiamo queste idee nell'odierno mondo delle agguerrite identità nazionali, dei conflitti culturali e dei rapporti di forza? C'è la possibilità di superare la dis.tanza tra la torre d'avorio della razionalità contemplativa evocata apertamente da Newman e il nostro urgente bisogno di auto-realizzazione e di auto-affermazione, con tutto il suo retroterra storico di repressione e di negazione? Io credo di sì. Dirò anzi di più: il compito dell'accademia è oggi proprio quello di superare questa distanza, dal momento che la società è troppo direttamente influenzata dalla politica per sostenere un ruolo così generale e in fondo così intellettuale e morale. Io credo che dobbiamo innanzitutto accettare che il nazionalismo risorgente ha i suoi limiti, sia esso il nazionalismo delle vittime o degli oppressori. Il nazionalismo è la filosofia dell'identità resa passione collettiva e organizzata. Per quelli di noi che escono solo ora dalFemarginazione e dalle persecuzioni, il nazionalismo è una cosa necessaria: un'identità a lungo negata e differita ha bisogno di esplicarsi e cliprendere il suo posto tra le altre identità umane. Ma questo è solo il primo passo. Asservire tutta o anche solo gran parte dell'educazione a questa meta, significa limitare gli orizzonti umani senza nessuna giustificazione intellettuale e neanche politica. Assumere che il fine dell'educazione sia più avanzato perché si concentra principalmente sulla nostra separatezza, sulla nostra identità etnica, culturale, sulle nostre tradizioni, ci colloca ironicamente là dove ci collocava il razzismo ~ttocentesco in quanto razze inferiori, subalterne, incapaci di condividere la ricchezza.della cultura umana complessiva. Dire che le donne dovrebbero leggere soprattutto letteratura femminile, che i neri dovrebbero studiare e perfezionarsi solo su tecniche. di comprensione e di interpretazione proprie ai rteri, che gli arabi e i musulmani devono tornare ai Libri Sacri per ogni forma di conoscenza e saggezza è lo stesso che dire con Carlyle e Gobineau che tutte le razze inferiori devono mantenere la loro éondizione di inferiorità nel mondo. C'è spazio per tutti i felici incontri, diceva Aimé Césaire: nessuna razza ha il monopolio della bellezza o dell'intelligenza. 18 Un'unica travolgente identità al cuore dell'iniziativa accademica, sia essa africana, occidentale o asiatica, è un limite, un impoverimento. Il mondo in cui viviamo è fatto di numerose identità che interagiscono, a volte armoniosamente e a volte antiteticamente. Non affrontare questo fatto nella sua interezzache è in realtà una versione contemporanea del tutto a cui si riferiva Newman come a un reale allargamento della mente - significa non avere libertà accademica. Non possiamo dichiararci ricercatori della giustizia se difendiamo solo la conoscenza di e su noi stessi. Il nostro modello di libertà accademica dovrebbe perciò essere l'emigrante o il viaggiatore: perché, se nel mondo fuori dell'accademia abbiamo bisogno di essere noi stessi e solo noi stessi, all'interno dell'accademia dovremmo essere capaci di scoprire e viaggiare attraverso gli altri, altre identità, altre varietà dell'avventura umana. Ma, più essenzialmente, in questa scoperta congiunta del sé e dell'Altro, sta il ruolo dell'accademia nella possibile trasfo1mazione di conflitti o contrasti o affermazioni di principio in riconciliazioni, reciprocità, riconoscimento, interazione creativa. Tanta cultura prodotta dall'Europa sul!' Africa, l'India o il Medio Oriente derivava inizialmente dal bisogno di controllo imperialistico; in verità, come dimostra· convincentemente un saggio di Robert Stafford su Rodnéy Murchison, perfino la biologia e la geologia furono coinvolte, insieme ali a geografia e all'etnologia, nella corsa alla colonizzazione dell'Africa. Ma invece che vedere la ricerca della conoscenza nell'accademia come una ricerca per il controllo e la coercizione sugli altri, noi dovremmo considerare la conoscenza come qualcosa per cui mettere a repentaglio la nostra identità, e dovremmo pensare alla libertà accademica come un invito a rinunciare all'identità nella speranza di comprenderne e magari assumerne più di una. Dobbiamo vedere l'accademia come un luogo in cui viaggiare, senza mai possederlo, ma sentendosi sempre a casa nostra. Si arriva così, finalmente, a due immagini di colui che abita l'accademia e lo spazio della scuola e dell'università. Da una parte, possiamo starci dentro allo scopo di esercitare il proprio dominio. Qui, in questa concezione dello spazio accademico, l'accademico è re e dittatore. Sorveglia ciò che accade attorno a lui con distacco e padronanza. La sua legittimazione gli viene dal fatto che si tratta del suo regno, che egli può descrivere con autorità come principalmente occidentale, africano, islamico, americano, eccetera.L'altro modello è notevolmente più mobile, più vario, anche se non meno serio. Il viaggiatore dipende non dal potere, ma dal movimento, dalla volontà di entrare in mondi diversi, usare lingue diverse e capire una varietà di fogge, maschere e retoriche. I viaggiatori devono abbandonare la routine delle abitudini alla scopo di vivere secondo nuovi ritmi e rituali. E soprattutto, al contrario del sovrano che deve sorvegliare un solo luogo e difenderne le frontiere, il viaggiatore attraversa, passa attraverso i territori, abbandona le posisioni acquisite, in continuazione. Farlo con dedizione e amore, oltre che con un senso realistico del terreno è, credo, il massimo di libertà accademica possibile, dato che una delle caratteristiche · fondamentali del viaggiatore è ch'e egli può lasciare al dittatore l'autorità e i dogmi. Il viaggiatore ha di meglio a cui pensare e da godere che a se stesso e al suo territorio. E queste altre cose sono molto più interessanti, più degne di studio e di rispetto ché l'autoadulazione e l'auto-apprezzamento acritico. Entrare nel mondo accademico diventa allora entrare in un'infinita ricerca di conoscenza e di libertà.
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