Linea d'ombra - anno X - n. 69 - marzo 1992

Bambini di Città del Mes.sico !foto di Dannei-niller, Saba/Rea/Contrasto). l'oppressione finirà e noi avremo la nostra auto-determinazione, non a spese di un altro popolo, ma grazie a uno stato palestinese che starà geograficamente a fianco di ·quello israeliano. Ma cosa faremo intellettualmente e accademicamente della libertà che avremo conquistato? Considero quest'interrogativo come il più serio che si dovrà affrontare. Porrò la domanda in questo modo: da che tipo di autorità, da che tipo di norme umane, da che tipo di identità ci lasceremo guidare, lasceremo guidare i ·nostri studi, i nostri processi educativi? Una volta che si sarà vinto, che si sarà ottenuto uguaglianza e indipendenza, innalzeremo la nostra storia, la nostra identità etnica e culturale al di sopra di quelle altrui, dando acriticamente a quest'identità centralità e assoluto dominio? Sostituiremo una norma.eurocentrica con una norma afrocentrica o islamo- o arabocentrica? Oppure, come è tanto · spesso avvenuto nel mondo post-coloniale, conquisteremo la nostra indipendenza e poi torneremo a modelli educativi pigramente derivati, adottati per imitazione e acriticamente da altri? Insomma, useremo la libertà per cui abbiamo combattuto per riproporre semplicemente le pastoie mentab che un tempo ci opprimevano? E, avendole assunte, procederemo ad appbcarle ad altri meno fortunati di noi? Formulare queste domande significa che l'Ùniversità - e più in generale l'accademia, ma specialmente, credo, l't'.miversità- ha un ruolo privilegiato da giocare nell'affrontare questi IL CONTESTO problemi. Le università esistono nel mondo, anche se ogni università, corrie ho detto, esiste nel suo mondo particolare con una storia e circostanze sociali sue proprie. Non riesco a convincermi che, anche se non può essere un'arena immediatamente politica, l'università possa essere libera dagli intralci, dai proc blemi, dalle dinamiche sociali dell'ambiente che la circonda. Ed è assai meglio prender atto di queste realtà, invece di parlare . della libertà accademica in modo generico e superficiale, come se la vera libertà venisse per caso, e una volta venuta non dovesse più sentirsi minaçciata, avere preoccupazioni: Quando ho cominciato a insègnare, circa trent'anni fa, un collega più anziarro mi prese da parte e mi informò che la vita accademica era in verità strana; era a volte mortalmente noiosa, era generalmente educata e a su modo gentile, per quanto in sostanza inefficace, ma in ogni caso, aggiunse, era sempre meglio che lavorare. Nessuno di noi può negare la sensazione di privilegio che si avverte all'interno del santuario accademico, la sensazione che mentre la maggior parte delle persone vanno a lavorare e . soffrono le loro ansie quotidiane, noi leggiamo libri e parliamo e scriviamo di grandi idee, esperienze e accadimenti storici. Secondo me non esiste un privilegio maggiore di questo. Ma in realtà nessuna università o scuola può davvero rappresentare un rifugio dalle difficoltà della vita umana e, più in particolare, dalle vicende politiche di una data società o cultura. Questo non per negare che, come disse Newman in maniera memorabile: "L'università ha questo obiettivo e questa missione; non contempla né l'impronta morale né la riproduzione meccanica; non professa di voler educare la mente né ali' arte né al dovere; la sua funzione è la cultura intellettuale, ha fatto il suo compito quando ha fatto questo, e qui può lasciare i suoi studenti. Educa l'intelletto a saper ragionar bene nei vari campi, a ricercare la verità e ad afferrarla". Si noti l'attenzione con cui Newman, forse il più grande prosatore.inglese insieme a Swift, sceglie le parole per indicare le azioni riguardanti il perseguimento della conoscenza: parole come esercizio, educare, ricercare, afferrare. In nessuna di queste parole c'è qualcosa che possa suggerire coercizione o u~ihtà diretta, vantaggio o dominio immediati. Newman dice altrove: ''La conoscenza è qualcosa di intellettuale, qualcosa che coglie ciò che percepisce attraverso i sensi; qualcbsa che getta uno sguardo sulle cose; che vede più di ciò che i sensi trasmettono;.che ragiona su quello che vede e mentre lo vede; che lo investe con un'idea". E aggiunge ancora: - "non conoscere ladisposizione relativa delle cose è la condizione degli schiavi o dei bambini; tracciare una mappa dell'universo è lo scopo, o almeno l'ambizione, della filosofia". Egli definisce la filosofia come lo stadio più alto della conoscenza. · Queste affermazioni sono incomparabilmente eloquenti, e possono essere ridimensionate di poco solo ricordandosi che Newman parlava degli uomini inglesi, non delle donne, e dell'educazione dei giovani cattolici. Nondimeno la profonda verità di queste parole è, credo, destinata a troncare con ogni visione parziale o ristretta dell'educazione la cui finalità si limiti alla riaffermazione di un'identità particolarmente attraente e dominante, quella che incarna il potere che è in auge in quel particolare momento. Forse, come molti dei vittoriani suoi contemporanei -viene subito inmente Ruskin- Newman non faceva che sostenere onestamente un tipo di educazione che poneva in cima alla scala della conoscenza valori inglesi, europei e cristiani. Ma a volte, anche se intendiamo dire una certa cosa, un altro pensiero si insinua nella nostra retorica e finisce per confutarla trasmette un'idea diversa e meno assertiva di quanto superficial~ente vorremmo sostenere. E questo accade, quando leggiamo Newman. Improvvisamente realizziamo che anche se

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