4 VISTA DALLA LUNA --0:: o::: o::: ~ --0:: ....J logica quindi la proposta di spaventarlo o di somministrargli un forte sedativo. Per il suo bene. L'utilitarismo orientato sul paziente viene così a coincidere spesso con un "egoismo etico" e, di fatto, col paternalismo più intollerabile; è proprio il bene del paziente che si cerca, oppure quello del medico, desideroso di evitare il rischio di procedimenti penali? Nascono di qui esami inutili o non necessari, ricoveri forzati, intimazioni minacciose ("se uno si ricovera firmi, nero su bianco, che se ne va contro il parere dei sanitari"). Niente relazione, niente autonomia del paziente. Se poi uno vuole tornare a casa perché ha la moglie sola e malata e non osa dirle che è in ospedale; perché non è convinto della diagnosi; perché ha paura di essere ricoverato in un particolare reparto; perché è un piantagrane, non importa: la legge è uguale per tutti ed è quella della scienza medica, per cui i malati sono, lo si accetti o meno, tutti a loro volta uguali. Nei fatti, la valutazione etica del caso clinico è diversa da quella descritta: un certo utilitarismo etico centrato sul paziente (e non sul medico!), cioè un certo paternalismo, può essere accettabile solo se: - Si appoggia a regole deontologiche, cioè a principi etici di base, generali, che non tengono conto delle conseguenze ma che hanno valore in sé: come ad esempio l'imperativo categorico kantiano o determinati principi religiosi per chi è credente. - Rispetta (e potenzia) la libertà di scelta, le decisioni e l'autonomia del paziente. - Tiene conto della realtà del contesto (situazione ospedaliera effettiva; aspettative, timori, speranze del medico e del paziente, problemi familiari e sociali di quest'ultimo, e così via). - Poggia sulla relazione, "terzo positivo" tra medico e paziente, in grado di condizionare le decisioni dell'uno e dell'altro. Certo, l'inflessibilità deontologica che non tenga conto di qualche aspetto utilitaristico tende a diventare disumana e rigida: il medico finisce per dialogare con la sua coscienza soltanto, e dimentica il paziente, la sua autonomia e la relazione. E tuttavia una delle formulazioni dell'imperativo categorico kantiano, fondamentale anche nella pratica medica, è la seguente: "agisci in modo da trattare gli uomini sempre come un fine e mai come un mezzo". Da una posizione del genere non possono nascere né paternalismo non richiesto, né etica egoista, né dogmatismo, né distacco, né del resto ideologie liberticide. Un'etica di tipo utilitaristico centrata sul paziente è applicabile (e non può in molti casi non essere applicata) solo se poggia su una deontologia del genere. Se l'individuo non può venire usato come un mezzo, la sua volontà, il suo diritto di scegliere, vengono prima di un teorico "suo bene", deciso unilateralmente sulla base delle priorità strettamente cliniche. Nel caso da cui siamo partiti, e tanto più in assenza di elementi di certezza diagnoMEDICI E PAZIENTI stica, il diritto di scelta da parte del paziente, inequivocabilmente espresso, doveva essere rispettato, come infatti è avvenuto. Fargli firmare un documento in cui gli si scaricava tutta la responsabilità della decisione poteva certo proteggere il medico da un procedimento penale, ma sarebbe apparso come un atto aggressivo e avrebbe rotto senza dubbio la relazione, che deve essere in ogni momento al centro della pratica medica. Senza dire che lasciare il paziente tutta la notte in degenza temporanea, senza avere alle spalle unità di cura intensiva o di emodinamica - come nel caso in questione - sarebbe stato a mio avviso un inganno oltre che un inutile disagio per il paziente. Sottolineo queste motivazioni pratiche, in quanto anche esse devono avere posto nel processo decisionale del medico. Da quanto esposto, appare chiaro che il medico è anche uno scienziato ma sarebbe sbagliato e limitativo affermare che non è altro che uno scienziato. Le sue decisioni sono in ogni momento condizionate dalle conoscenze scientifiche, ma anche, e spesso soprattutto, da considerazioni di tipo filosofico ed etico. La medicina, almeno quella che ha a che fare con i malati in carne ed ossa, è una disciplina che sta al confine tra scienze della natura e scienze umane; averlo dimenticato, come è evidente dal curriculum di studi universitario da cui ogni aspetto umanistico è scomparso, è causa a lunga scadenza di disagio anche serio per molti medici. Il risultato perverso di una mancata formazione filosofica ed etica è costituito da forme di autodifesa che vanno dal paternalismo più massiccio all'indifferenza più totale. In altri termini si va dall'atteggiamento: "quello che le dico di fare è per il suo bene; esegua e non discuta" all'atteggiamento: "io quel che dovevo dire gliel'ho detto, poi faccia un po' lei quel che vuole: la pelle è sua". Poiché la presa di coscienza dei propri diritti da parte dei cittadini va aumentando, il primo atteggiamento è sempre più difficile da sostenere, così ci si rifugia nel secondo, con l'appoggio di numerosi esami ed interventi non necessari al paziente ma "difensivi" per il medico. Occorre ritrovare un giusto equilibrio tra razionalismo ed empirismo, tra etica utilitaristica e deontologia, tra decisione medica e autonomia del paziente. Un campo di studio e di lavoro interamente aperto, che l'università ha dimenticato e che si rivela ogni giorno più importante per la salute (psichica) del medico e per quella (fisica e psichica) del paziente. Mi trovo oggi a dover dare ragione ai vecchi baroni della clinica almeno su di un punto (che ali' epoca avevo pres,oparticolarmente di mira): la medicina non è solo scienza né solo osservazione empirica, e neanche può essere considerata un'attività lavorativa "come tutte le altre": essa è molto altro e molto di più, e non è errato definirla, come un tempo, "un'arte". P.S. Le richieste del P.M sono state respinte e i medici del Pronto Soccorso sono stati assolti.
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