CONOSCERSI Nuruddin Farah traduzione di Itala Vivan Nuruddin Farah è nato nel 1945 a Raidos (Somalia) e ha studiato a Mogadiscio, in India, in Inghilterra. Esule dal 1976, ha vissuto a lungo in Italia e insegnato in diverse università africane. europee, statunitensi. Considerato tra i maggiori scrittori africani di lingua inglese, è autore .dei romanzi From a crooked rib (1970), A naked needle (1976), la trilogia Variazioni sul tema di una dittatura africana formata da Sweet and sour milk (1979), Sardines (1981) e Chiuditi Sesamo (1983) il suo primo romanzo a essere tradotto in italiano, dalle Edizioni Lavoro - con l'introduzione di Claudio Gorlier, nella collana "Il lato dell'ombra" diretta da Itala Vivan -che annunciano la prossima pubblicazione dell'intero ciclo. Ci conoscevamo da anni. Le telefonavo ogni volta che mi capitava di recarmi a Londra, le raccontavo lemie ultime novità e lei mi a casa sua perché potessi conoscerlo e conoscere i loro amici e i ragazzi. Rifiutavo, penso perché non ero certo, se li avessi conosciuti, di poter continuare a tenere aperta una linea segret.a di comunicazione. Sospettavo che avrei dovuto rinunciare all'idea di andare a letto con lei. Nel mio intimo, sentivo questo impulso. Come regola generale, o vado a letto con una donna al secondo o terzo incontro, o non ne faccio niente. Perciò, ogni volta che lei mi invitava, dicevo di non essere libero per quella giornata o per quella settimana, oppure di non avere il tempo per prendere un treno e andare a pranzo da loro, che abitavano nei sobborghi. Quanto al venir giù lei da sola, tanto per vederci, assicurava che avrebbe fatto in modo di trovare il tempo per una scappata in macchina a Londra appena possibile. Sognavo di lei e qualche volta quei sogni finivano con l'essere sogni bagnati; ma questo a lei non l'avevo mai detto. Né le dicevo di sperare che potessimo cenare soli, lei ed io, a lume di candela, io . osservando i suoi occhi nocciola, il piede con cui, toltasi le scarpe, accarezzava l'altra gamba. Seguiva, nella mia fantasia, la scena di un amplesso frettoloso, con lei che ogni tanto gUardava l'orologio, domandandosi se non fosse troppo tardi per il suo ultimo . treno. Oppure era in macchina, e allora speravo che sentisse il desiderio di me ad ogni svolta, via via che imboccava le curve, accogliendole come in un abbraccio, pensando a me a ai brevi istanti d'amore che avevamo diviso. Il mio nome sarebbe rimasto raccontava le sue. Mi parlava di un marito che Foto di Giovanni Giovannetti. non avevo mai conosciuto, di una figlia che aveva iniziato.da poco il suo ciclo mensile, di un figlio che si era rotto un braccio. Io la mettevo al corrente sulle cose che avevo fatto dopo la nostra ultima conversazione telefonica. Prima di riattaccare - poiché ero sempre io a chiamarla, lei non aveva mai un numero dove cercarmi, non era mai certa di dove fossi e con chi, né aveva modo di saperlo - combinavamo di vederci. Sapevamo già che non ci saremmo visti, proprio come non ci eravamo rivisti in tutti gli anni in cui avevamo fissato appuntamenti che nessuno dei due manteneva. Ma questo dava alla nostra chiacchierata per telefono uno scopo, un significato. Ci guardavamo bene dal rammentarci l'un l'altro che c'eravamo incontrati u·nasola volta, e questo tanto di quel tempo prima che nessuno dei due avrebbe ricordato la data se non fosse stato per il fatto che lei era venuta a una mia conferenza sulla Somalia, conferenza di cui ancora esistevano gli opuscoli. Quella sera, lei mi aveva dato un passaggio in macchina fino all'albergo, al quale ero sceso, e avevamo parlato, parlato e parlato così a lungo, nell'auto, che si era fatto troppo tardi perché potesse salire a bere qualcosa. Aveva detto çhe il-suo impaziente marito doveva essere piuttosto nervoso, in attesa del suo rientro. Le avevo promesso che mi sarei rimesso in contatto e lei aveva promesso di scrivermi se avesse ricevuto mie notizie. Poi, ero ripartito per un'altra città, ora non ricordo quale, e le avevo mandato una cartolina senza indirizzo. Ma le dicevo che mi sarei rifatto vivo al mio ritorno a Londra. Di una cosa ero certo, era più vecchia di me, sui quarantacinque anni, mentre io ero poco più che trentenne. Mi aveva detto con molta franchezza d'avere un figlio che aveva compiuto da poco ventun anni e una figlia che ormai si considerava una signorina e come tale si comportava. Non sono sicuro ~e vi fosse un terzo figlio. Poteva anche esserci, per quello che ne so. Suo marito, mi aveva detto, era statorettore di un college nel quale lei aveva insegnato, e ricordo che una o due volte aveva cercato rn invitarmi un'iniziale nel suo diario, un nome che non sarebbe divenuto carnoso di vocali e consonanti, che non sarebbe mai stato pronunciabile. ' E lasciate che aggiunga una cosa: ho un debole, mi accorgo di reagire in modo caldo, positivo, a donne che sono più intelligenti di me. Dico a me stesso che è meraviglioso avere una compagna in grado di riempire le mie giornate vuote di discussioni intellettuali per me tanto stimolanti quanto le orge sciamaniche della mia terra, come quelle presiedute da un Dajaal! Un caldo incontro intellettuale con una donna produce in me la sensazione del desiderio di un contatto diverso: al di là di quello mentale, al-di là di quello fisico. Il suo nome: Mary. Perfino q4ello, quasi non avevo bisogno di usarlo. Infatti le telefonavo quando ero certo che il marito era al lavoro e i figli a scuola e, se rispondeva qualcun altro, dicevo semplicemente: "Ho sbagliato, scusi tanto", e riattaccavo. Se invece rispondeva lei, intonavo le sequenze del mio nome dalle molte vocali .enon dicevo altro, perché subito interloquiva lei e parlava, parlava, parlava, fino a tacere poi, bruscamente, per cominciare con le domande. Allora le raccontavo le ultime novità: dov'ero stato, che cosa avevo fatto di bello, e infine rimanevo in silenzio e lasciavo che lei riprendesse il sopravvento. Mi piaceva
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