Linea d'ombra - anno X - n. 68 - febbraio 1992

INCONTRI/CHATWIN non sapeva niente. Era uno squarcio interessante sull'immenso potere che questi vecchi aborigeni esercitano su tutto il paese. Trovarsi a confronto con loro è come far visita a un vecchio filosofo pre-socratico: sembrano immensamente saggi, anche se si limitano a sputarti addosso bruscamente poche parole. Stanno lì seduti, a gambe incrociate, in una posizione simile al Buddha, e tu avverti questa immensa intelligenza che ti arriva addosso a ondate. Ma che ne dici dei torti e delle ragioni del lÒro contenzioso sulla terra? Ovviamente, tutta l'Australia è terra aborigena. Non c'è limite a una simile rivendicazione: capisci, un gruppo tribale che magari si trovasse nel New South Wales occidentale, potrebbe realmente sapere quale parte del centro di Sidney apparteneva al loro clan ... E i bianchi australiani sono convinti, con qualche ragione, che una volta data la stura a questo genere di richieste, non ci sarebbe più modo di fermarle. Mi ha colpito il rapporto duro, teso che hai avuto con questi pre-socratici aborigeni. Sì. Ci fu quello scambio piuttosto strano con un uomo che era un prete spietato, un aborigeno, che era stato a Roma, era stato benedetto dal Papa, e poi era tornato dalla sua gente. Cercai di coinvolgerlo negli argomenti che mi stavano a cuore. Niente! Neanche un barlume di interesse. Allora pensai di affrontare la questione da un'altra parte. Avrei cercato di interessarlo agli zingari, perché ci sono dei modi in cui gli zingari usano il sistema telefonico internazionale come gli aborigeni usano le Vie dei Canti. E lui mi rispose: "Non vedo che cosa c'entrino gli zingari con questo." Gli risposi: "Anche gli zingari vedono l'uomo , bianco come una risorsa, come 'selvaggina facile' da catturare. In effetti, gli zingari usano la parola 'carne' per chiamare i bianchi residenti." L'aborigeno si voltò di colpo verso di me e disse: "Sai come chiamiamo noi i bianchi?" "Carne", risposi. E lui: "Sai come chiamiamo l'assegno dell'assistenza pubblica?" "Carne, anche quello." · Fino a che punto avresti potuto avvicinarli, di più di quanto hai fatto? Avrei dovuto scegliere di vivere in un insediamento aborigeno. Poi, avrei dovuto sottopormi a qualche rituale iniziatico. Ma la mia scelta fu quella di testare un osservatore, di avvicinarmi quanto più possibile senza dover fare quel che ho detto. Semplicemente, non volevo farlo. Qualcuno potrebbe accusarti di esserti lasciato coinvolgere nel Terza Mondo per quel tanto che ti permetteva di romanzarlo, senza farti mai coinvolgere sul serio. Ora sì che mi hai portato su un terreno infido. (Pausa) Se mi fossi fatto coinvolgere, non scriverei mai i libri che scrivo. Ma non c'è forse un contrasto ricorrente, in Le Vie dei Canti, fra Bruce, il narratore, e personaggi come Arkady, Marion e Wendy, che hanno un impegno nei confronti della realtà aborigena incomparabilmente più profondo del tuo? Incomparabilmente più profondo del mio! Lo scopo per cui ho 68 inventato un personaggio come Arkady è che mi permetteva di scaricare una parte del peso dalle mie spalle di osservatore, per trasformarlo in un dialogo con Arkady. E lui è ammirevolmente coinvolto. Ma se fossi stato io quello coinvolto, allora non avrei potuto descrivere lui e il suo coinvolgimento. Ora arriviamo alla sottile linea di confine fra il viaggiatore e il turista. · Non c'è necessariamente niente di sbagliato nell'essere un turista. Un turista è qualcuno a cui capita di essere più interessato a vedere il resto del mondo che a sguazzare nella sua pozzanghera. · E quel che riscatta questo particolare turista-Bruce Chatwin - è la scrittura che ne ha ricavato? Beh, sì, se vale .... Le Vie dei Canti termina con l'immagine indimenticabile dei tre vecchissimi aborigeni che hanno seguito le loro vie fino al luogo· sacro in cui la via-del-canto ha origine. E loro tre stanno morendo, ma sono in uno stato di beatitudine. Mi ha colpito ilfatto che il libro si chiuda con un 'immagine di mortefelice, e che tu stesso ti trovassi sul punto di morire quando hai scritto queste pagine. Ah, sì. Ebbene, un giovane missionario luterano mi portò a vedere questi tre vecchi che stavano morendo sotto un albero. Ed era naturalmente quello il modo per concludere il libro, non ce n'era un altro. Ma in qualche modo la finzione e la realtà si fusero: l'anno prima ero stato in Cina e avevo contratto una malattia completamente sconosciuta al midollo spinale; consegnai il libro - che è in primo luogo un libro sul camminare - e il giorno dopo non ero nemmeno in grado di attraversare la stanza dell'albergo. Scrissi il capitolo sui tre vecchi che stanno morendo sotto un eucalipto, mentre ero sul punto di schiattare anch'io. Lo finii a gran velocità. Spesso mi capita di stare a penare su una frase, ma quella volta buttai giù il brano così come veniva su un blocco per appunti, e quella fu la conclusione del libro. Mi convinse di quanto profondamente la scrittura di un romanzo possa incidere sulla propria vita. Bruce, stiamo chiacchierando nella stanza illuminata dal sole di una casa di campagna che si affaccia su un prato in pendio dove brucano pecore nere. C'è unfuoco scoppiettante nel camino, e abbiamo appena finito di mangiare un delizioso arrosto di agnello che Elizabeth ci ha preparato. È la rappresentazione perfetta del focolare domestico. Come vagabondo, sei sorpreso di trovarti in un posto simile? Questo per te è il focolare domestico? (Lunga pausa) È terribile dirlo, ma non lo è. Non so perché, ma non .potràmai esserlo. Non sarei neppure in grado di spiegare perché. E una cosa che fa diventar matta Elizabeth, ma ... abbiamo tutto, qua, ma io vorrei sempre essere da un'altra parte. È molto difficile convivere con una persona come me. (Pausa) Così Le Vie dei Canti è terminato, ma in un certo senso il viaggio non è concluso. Ti rimetterai in cammino. Sì, tutti i miei piani sono legati all'idea di mettermi per strada. Ho idea che dovrei cercare di scrivere un 'romanzo russo', narrato

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