I CONFRONTI I Da Recanati a Quinnipak Bizzarria e realtà in tre giovani scriffori italiani Mario Barenghi La tendenza wllatrasfigurazione fantastica, all'invenzione bizzarra, alla deformazione comica o grottesca è abbastanza forte nella narrativa italiana degli ultimi anni. Si tratta di un fenomeno in buona misura nuç)Vo,che merita attenzione, anche se per ora è difficile pronunciarsi sulla sua effettiva portata. Di recente Marino Sinibaldi ne ha parlato addirittura come di un carattere distintivo della produzione nostrana sul mercato internazionale, cosa semplicemente impensabile fino a non molto tempo fa. D'altro canto, il nocciolo del suo intervento (Scrittori in cerca d'identità, in Tirature '91 a cura di Vittorio Spinazzola, Einaudi Tascabili) consiste piuttosto nella denuncia del "deficit di realt~" che si avverte nelle prove di molti giovani narratori: l'opzione perii fantastico equivar-. rebbe dunque in sostanza a un escamotage, a un alibi-a una fuga. Ma realtà non vuol dire necessariamente realismo. Non.si tratta di raccogliere il pur non insensato suggerimento di Tom Wolfe (tradotto in "Wimbledon", dicembre 1990) a "ritornare nelle miniere" sull'esempio del Zola di Germinale, o di porsi comunque nell'ottica di rappresentare questo o quell'aspetto del nostro paese o della nostra civiltà. Ciò che occorre, oggi come sempre, è fare della letteratura - realistica o fantastica, non importa - a partire dall'esperienza. Così formulata l'osservazione suona banale, ne convengo. O magari insulsa. Che cosa significa la parola 'esperienza', ìntesa come requisito preliminare dell'invenzione letteraria? Qual è, o quali sono, i tipi di esperienza potenzialmente fecondi sul piano artisticò? Discorrendo in astratto è ovviamente impossibile andare oltre qualche considerazione generalissima. Si potrà però quanto meno ribadire che l'esperienza non si misura sull'eccezionalità dei casi vissuti, né s'identifica con una larga pratica degli uomini e delle cose: bensì dipende dalla capacità dell'individuo di appropriarsi quanto gli capita di sperimentare, cioè di raccogliere dal decorso (dal rovinìo, dalla stagnazione: dalla deriva) di ciò che accade, una sostanza, se non un senso: e di assimilarla, tramutandola in fattore di autoidentificazione. E poiché identità implica distinzione, raffronto - e perciò legame, oltre che antitesi - 'esperienza' è ciò che suggella e che collega, che imprime segni e stringe relazioni: ciò che modifica lo stato di chi la vive in maniera così nitida e necessitante da condizionare e rinnovare i rapporti con i propri simili. In quest'accezione, l'esperienza costituisce il necessario presupposto di ogni forma di rappresentazione letteraria, non solo di quella che mira a rendere un 'immagine verosimile del reale. Anzi, nel caso della letteratura non realistica la necessità si fa se possibile ancora più imperiosa, giacché il venir meno dell'impegno documentario o testimoniale esalta la consistenza (o l'inconsistenza) dei valori chiamati in causa. Spogliata dai referenti concreti di realtà, l'irrvenzione si rivela con maggior chiarezza per ciò che è: fantasticheria solipsistica o futile divagazione, rimasticatura di motivi convenzionali o dilatazione di acerbe idiosincrasie, gratuita esibizione di bravura ovvero metafora di una realtà effettivamente 'esperita', e perciò profferta al lettore come espressione significante. Come marchio, incisione, cicatrice: segno (non finto neo, né tatuaggio o griffe) di conoscimento e confronto reciproco. Nelle pagine che seguono prenderò in esame tre libri apparsi di recente, anche se non più freschi di stampa, che esemplificano in maniera piuttosto chiara tre diversi livelli di trasfusione di esperienza nell'opera letteraria. Va da sé che questa breve ricognizione non pretende né di esaurire le possibilità del genere fantastico, né di fornire un quadro, neppure sommario, di quella che si è soliti chiamare la giovane narrativa. lo venia pien d'angoscia a rimirarti di Michele Mari (edito da Longanesi) ha ottenuto un discreto successo di critica, tanto che la giuria del Campiello l'ha incluso nella cinquina del 1990. Il racconto si impernia sull'idea (pressoché geniale) che Leopardi, sommo fra quanti abbiano cantato mai placidi notturni lunari, fosse un licantropo. A valorizzare la trovata pr,ovvede una diffusa ma sempre efficace forma di straniamento prospettico: la vicenda viene infatti riferita da un testimone sprovveduto, il fratello minore del protagonista. L'ingenuo Carlo non assiste mai alle esplosioni di ferocia di Giacomo (qui chiamato con una variante fonetica del secondo nome, Tardegardo), ma dagl'indizi che egli registra il lettore non fatica a seguire lo svolgersi della storia. Del dramma, anzi: il dramma di un animo eletto che scopre dentro di sé un'ancestrale, indomabile natura ferina. Sull'antitesi ragione-istinto (variamente declinata: bene-male, natura-ci viltà, ordine-disordine) si fondava anche il primo romanzo di Mari, Di bestia in bestia (1989), che riprendeva - per la verità con una tecnica narrativa assai meno scaltrita- il topos dei fratelli nemici. Non c'è peraltro ragione di credere che il tema dello sdoppiamento della personalità rappresenti una scelta casuale o di comodo; al contrario, tutto lascia pensare che esso costituisca per l'autore una sorgente d'ispirazione autentica, sinceramente sentita e sofferta. Ora, non c'è dubbio che sul mito di Jekyll e Hyde (come su Faust, Ulisse, don Giovanni, Moby Dick) si possano ancora scrivere capolavori a decine. Il punto è che l'interiore rovello da cui l'invenzione prende le mosse (il ribollente nucleo di pensieri, immagini, emozioni, sentimenti che agita l'uomo che scrive) in questo caso, anziché alimentare un'elaborazione letteraria autonoma, viene esorcizzato dall'adesione a una forma precostituita di letterarietà, e perciò diventa esteticamente inerte. lo venia pien d'angoscia a rimirarti, come credo tutti ricordano, è scritto infatti in una lingua arcaica, primo-ottocentesca o forse, meglio, tardosettecentesca, tramata di allusioni e citazioni leopardiane in gran numero. Mari, che è un profondo conoscitore della letteratura italiana fra XVIII e XIX secolo, padroneggia questo insolito strumento espressivo con sicurezza mirabile, e merita tutto il favore che ha riscosso presso l'elitario pubblico degli accademici e degli specialisti. Ma uno scrittore non può esimersi dal paragone con la lingua attuale. E' lì , nel dar viva forma di parole a quelli che una volta si chiamavano i propri "fantasmi", che le qualità di scrittore, se ci sono, debbono venir fuori. Riecheggiando perente ancorché illustri loquele, Mari si preclude la possibilità stessa di foggiarsi quello stile personale che solo rivela un' avvenuta, vissutaesperienza di sé. Più esattamente: invece di sfruttare le contraddizioni che lo abitano come una risorsa positiva, come un impulso vitale ed energetico, egli le disinnesca, le neutralizza, ne fa pretesto per un divertissement che non può non lasciare il tempo che trova. Insomma, lo venia eccetera è un pastiche elegante e dottissimo, e in termini di metaletteratura o iperletteratura può essere considerato perfino un piccolo capolavoro. Ma come opera letteraria, semplice- . mente, non esiste. Definirlo "romanzo", poi, è una sciocchezza. 25
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