Linea d'ombra - anno X - n. 68 - febbraio 1992

IL CONTESTO Unione Sovietica) - e mentre l'Europa occidentale sembra puntare piuttosto all'integrazione sovranazionale, nella parte orientale del nostro continente sembrano prevalere in questa fase le spinte disintegrative: si pensi, appunto, alla Jugoslavia o all'Unione Sovietica, ma anche alla Cecoslovacchia, e forse ad altre aree. Forse ciò è da ricondurre principalmente alla scomparsa dell'ideologia fondativa di quegli stati ed alla disgregazione dell'apparato di potere che li dominava: il federalismo appare talmente legato ali' esperienza dell'internazionalismo comunista da essersi screditato con essa. Ma non appena si volga lo sguardo ad Ovest; si notano simili tendenze anche altrove: ricordo, a titolo di esempio, il Canada o il Belgio. L'accettazione positiva di ordinamenti pluri-nazionali sembra quindi seriamente in questione anche nell'Occidente, per non parlare dell'Africa, deli' Asia e dell'America Latina, che potrebbero essere presto scosse da ben più intensi conflitti di origine etno-nazionale (l'Etiopia e la Somalia insegnano, questioni come quelle del Kashmir o del Tibet non sono isolate). Dobbiamo dunque (tornare a) pensare che popoli ed etnie considerino la formazione di uno stato nazionale o l' aggregazione ad uno stato nazionale ritenuto a loro omogeneo come via maestra per la realizzazionè delle loro aspirazioni collettive? Bisogna rassegnarsi che le idee di aggregazioni inter-, sovra- o transnazionali siano residui di illusioni illuministiche, una sorta di invenzione razionalista senza vita, e perseguire l'obiettivo di realizzare stati nazionali con confini possibilmente chiari e netti sotto il profiJo·etnico? Non è forse la stessa lentezza del processo di integrazione europea-occidentale una implicita conferma che la risposta federalista è fatta di grilli ambiziosi ma vaghi? · Sull'autodeterminazione dei popoli: lo stato nazionale come "tecnologia Iion appropriata" Sono oggi in tanti a pensarla, non sempre espressamente, così. Lo si pensa e lo si dice in nome del diritto dei popoli all'autodeterminazione nazionale, che da non pochi viene collocato al primo posto dei principi di diritto internazionale, per quanto probkmatici possano essere entrambi i termini che lo compongono: quello di "autodeterminazione" e quello di "popolo". Ma spesso si oscurano o si dimenticano due realtà molto importanti: 1) che raramente i "popoli" - nel mondo, ma anche in Europa-risiedono in maniera così com'patta e circoscrivibile in territori facilmente delimitabili con netti confini etnici, e 2) che la realizzazione dell'autodeterminazione, quando implichi la costituzione o modificazione di '.'stati nazionali", tuttora può costare un altissimo prezzo in termini di conflittualità, anche internazionale. Ciòdipen~e anche da alcune caratteristiche qualificanti, sinora spes~o accettate senza troppe obiezioni, che si attribuiscono agli stati nazionali e che sembrano sopravvivere alle catastrofi storiche che esse hanno contribuito a preparare o legittimare. Nomino alcuni di questi principi, magari con qualche semplificazione. "Ogni stato una nazione" (ogni stato un solo popolo), "ogni nazione uno stato", "ad ogni stato (nazionale) la sua sovranità" (che comprende il diritto ad armarsi ed a condurre guerte), "non-ingerenza negli affari interni degli stati" come quintessenza della sovranità, forse ancora la definizione di "confini netti secondo chiare linee etniche" (come ancora si diceva nei 14 punti di Wilson alla fine della prima guerra mondiale, senza poi attuarli) ..: ecco alcune delle apparenti "ovvietà" in materia di stati nazionali, autodeterminazione e rivendicazioni etno-nazionali, che sembrano appartenere agli assiomi del diritto internazionale .. Ed in effetti tutti coloro che impiegano questi criteri per 20' giustificare il proprio "stato nazionale" già esistente e magari assai solido, e per difenderne l'µnità e l'integrità, non hanno diritto di scandalizzarsi se nuovi pretendenti sulla scena internazionale si richiamano agli stessi principi ed alle stesse esigenze per contestare qualcuno degli "stati nazionali in carica". Ciò può valere per la Francia verso i corsi come per la Romania verso gli ungheresi o la Turchia verso i curdi, e tanti altri: chi volesse scacciare il diavolo del "separatismo" ricorrendo al belzebu dello "stato nazionale", non sarà un buon e·sorcista. Nessuno ha diritto di inalberarsi quando altri pretendono ildiritto agli stessi errori - che si tratti dello stato-nazione o dei consumi energetici. Eppure questi criteri non danno una prospettiva molto utilizzabile e tanto meno pacifica per una reale autodeterminazione, e non è un caso che nello stesso atto finale di Helsinki nel 1975 il diritto all'autodeterminazione dei popoli sia stato ipocritamente inserito nella stessa formula che parla di inviolabilità dei confini (salvo per accordo). Ed infatti l'esperienza dimostra che è difficilissimo - forse addirittura impossibile nella grande maggioranza dei casi - fissare dei confini "corretti", "giusti", "etnicamente rispondenti" ed ancor più difficile tradurli in realtà in maniera pacifica; di fronte a gravi violazioni di diritti umani o di oppressione di minoranze, ma anche dinnanzi a gravi violazioni ambientali sembra difficile continuare a riconoscere nei confini degli stati una barriera invalicabile contro l'ingerenza (pacifica) altrui; in un mondo sempre più interdipendente non si può legittimare una concezione sostanzialmente privatistica della sovranità ("usque ad sidera, usque ad inferos", come il diritto di proprietà dei romani); vi è nel mondo un numero di popoli, etnie, tribu, ecc, assai superiore al possibile numero di stati nazionali nella loro odierna concezione; assai raro è invece il caso di popoli che abitino per interi e da soli uno stato nazionale, ed altrettanto raro il caso di stati che davvero ed a buon diritto possano considerarsi stati nazionali m_ono-etnici. Come si può, quindi, continuare a parlare dello stato-nazione come di una specie di diritto naturale dei popoli o come suprema realizzazione di sè? Bisogna, perlomeno, ammettere che non sembra trattarsi della "tecnologia più appropriata" per attuare gli obiettivi positivi che i movimenti etno-nazionali propongono. Questione chiave: esclusivismo (integralismo) etnico o politica della convivenza? Forse sarebbe dunque meglio riporre le idee sinora dominanti intorno allo stato-nazione nell'ambito delle fantasie idealtipiche, difficili da incontrarsi o da attuare nella realtà, e denunciare cùme sbagliata (o quantomeno irrealizzabile) la concezione-base che ad esse si connette: che cioè un popolo (una etnia, una tribu, ecc.) per vivere bene ed affermare la propria soggettività sto1ica e la propria libertà e democrazia abbia bisogno di vivere sul territorio in cui si trova in una condizione di omogeneità etnica, possibilmente dotata di sovranità, o comunque almeno di maggioranza. Tale concezione porta all'esclusivismo (o integralismo) etnico, che nelle sue forme estreme - e purtroppo non rare nella storia - impone l'inclusione o l'esclusione forzata dei "diversi" (persone, gruppi, lingue, culture, religioni ...). Ciò può avvenire da un lato attraverso l'assimilazione imposta e non di rado violenta, dall'altro attraverso l'emarginazione, la discriminazione, l'espulsione dal territorio o addritt:ura lo sterminio. In ogni caso l'integralismo etnico produce attriti e guerre - ormai questo è noto dall'esperienza storica, e bisognerebbe saperne tener conto. Chi desidera o costruisce uno "stato dei Jedeschi" (o degli italiani, dei rumeni, dei croati, dei lettoni, dei francesi ..) non dovrà stupirsi se tutti quelli che non si considerano tedeschi, italiani, rumeni, croati, lettoni o francesi - a seconda dei casi - cominceranno a

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