Linea d'ombra - anno X - n. 68 - febbraio 1992

IL CONTESTO Quasi nessun autore si sottrae alla inclusione in questo schema interpretativo. Le eccezioni sono pochissime. Ci si può sottrarre allo schema dell'orientalismo solo con una-scelta politica esplicita, se ci si identifica alìneno parzialmente con l'altro. Escono dall'orientalismo J acques Berque, Maxime Rodinson e pochi altri. Dello stesso Massignon, che Said ammira molto, e di cui vengono citati con approvazione ampi brani, alla fine si riconosce la incapacità ad uscire da uno stereotipo così generale e inglobante da non consentire via di scampo. È stato giustamente fatto notare che non si capisce da dove discenda la possibilità per i pochi salvati di salvarsi. Said è un critico letterario, un umanista e ha scritto, a metà degli anni Settanta, in California. Già all'epoca della pubblicazione in inglese il libro suscitò reazioni contrastanti. Da un lato fu accolto con grande favore da una parte della sinistra, non solo quella dichiaratamente foucaultiana, che vedeva in questa puntigliosa requisitoria un contributo al disvelamento dei mali dell'eurocentrismo, dell'imperialismo economico e culturale. Tra gli autori ringraziati, oltre a Janet e Ibrahim Abu-Lughod, cui il libro è dedicato, figurano Noam Chomsky · e Roger Owen. li volume è stato citato emblematicamente come la resa dei conti definitiva con il disprezzo consapevole o inconsapevole con cui gli europei colti hanno trattato i non europei. Dall'altro non mancarono polemiche e stroncature. Una particolarmente severa, dotta, difficile da accantonare o da ribattere fé scritta per la "New York Review ofBooks" da Bernard Lewis. Il fatto che Lewis sia lui stesso un grande orientalista, citato più di una diecina di volte nel testo e bersaglio diretto di polemica, non toglieva nulla al peso della critica, che risultava forte soprattutto su due p.unti: la intollerabilità della esclusione dello studio di una cultura e di una lingua da parte di chi non sia nato in quella cultura e non parli quella lingua come lingua materna; la insostenibilità della tesi della debòlezza perdurante della cultura dei vari orienti, cioè della inconfrontabilità tra la quantità e il peso degli studi condotti dagli arabi sugli arabi in arabo o dai cinesi sui cinesi Ìn cinese e quelli condotti da europei sui vari orienti. Per il profano era ed è difficile seguire o giudicare gli elenchi di studi e di riviste di Lewis. Ma anche il profano si rende conto, con disappunto per la verità, se non s 4 l'arabo, che le sterminate bibliografie di cui sono corredati gli studi seri sul Medio Oriente o sul Nordafrica sono non solo di autori col nome arabo e di chi sa quale religione o confessione (Said stesso è di origine cristiana) ma in arabo. La stroncatura di Lewis, tradotta su "La rivista dei libri", ha accompagnato la traduzione del volume e dovrebbe costituirne, diciamo così, il naturale complemento. Speriamo solo che non scoraggi la lettura 'perché, anche se non si aècetta, come credo che non si possa accettare, la tesi forte del libro della esistenza di un orientalismo che regge compatto e coerente, dai tempi di Dante a quelli degli ebrei tedeschi, a quelli di Lewis, ci sono osservazioni e citazioni che sarebbe molto opportuno leggere e ricordare. Il punto debole del libro è proprio la grande ambiguità e vastità del termine orientalismo, che include quasi tutto. In particolare include l'orientalistica, cioè lo studio filologico, scientifico, delle fonti scritte in lingue orientali. Questo è programmatico nell'autore, che giustamente sottolinea l'assurda vastità del termine, che include due terzi del mondo e lingue diversissime tra lorò come l'arabo, il turco e il cinese. Ma, una vòlta criticato il ~ermine, e ammessa l'origine imperiale di esso, e magari disaggregato il campo, come ovviamente tutti gli studiosi hanno fatto in pratica, resta il fatto che quello dello studio delle fonti resta l'unico modo per uscire dalle idee ricevute, dagli stereotipi. In Italia c'è troppo poca orientalistica, rispetto all'Inghilterra, alla Francia, alla Germania, malgrado il valore deÌ Caetani e dei Baussani (non sufficientemente colpevoli da comparire nell'elenco degli autori citati, magari per il banale motivo che hanno scritto soprattutto in italiano), e perciò c'è più orientalismo sulla stampa e nei commenti quotidiani. E l'oriente si è svegliato: Se si consultano traduzioni recenti di un classico importante, per esempio Al Farabi, logico e filologo della politica, si scopre che i comitati scientifici sono composti sì di nomi ebrei tedeschi (Walzer, Zimmerman, Rosenthal, nel caso citato) ma la genealogia-dei testi include soprattutto codici che stanno presso biblioteche persiane, siriane, egiziane, dove vengono trattati proprio come codici, non come reliquie, mentre i ringraziamenti includono studiosi con i cognomi della più varia 10 origine. E del resto, lui stesso, Al Farabi, studiò forse Platone e Aristotele in siriaco, scrisse in arabo, ma, probabilmente, ci spiegano i suoi traduttori, di lingua madre era turkmeno. Se si lascia da parte il guscio foucaultiano, di cose interessanti per il lettore se ne trovano molte, in particolare le citazioni dei politici dell'età dell'imperialismo, Cromer, Balfour, Picot. Non siamo più abituati alla espressione diretta della superiorità assoluta, alla manifestazione esplicita della convinzione della irrazionalità, della disumanità, in questo senso non secondario, degli altri ed è un esercizio salutare richiamare alla memoria i giudizi di coloro che hanno governato il Medio Oriente e il Nordafrica. Non è importante che questa non sia tutta la verità. Sono esistiti autori, anche di destra, come James Fitzjames Stephen, lo zio di Virginia Woolf, che in Liberty, equality,fraternity hanno sostenuto che gli inglesi avevano il diritto di governare l'India perché erano una razza guerriera che aveva sconfitto gli indiani in battaglia, ma che perciò dovevano dare gli esami separati nei concorsi per la pubblica amministrazione, altrimenti i bengalesi che erano molto pronti di testa e avevano imparato un ottimo inglese avrebbero sempre scavalcato i non particolarmente brillanti funzionari britannici disposti a scegliere, secondo la frase di Disraeli citata all'inizio, l'Est come carriera. Questo è molto imperiale, molto antiegualitario, è anche un po' fascista, ma non rientra nello schema dell'orientalismo. C'erano però quelli che erano convinti che la ragione appartiene solo all'occidente, e bisogna ricordarli. Tutt'al più bisogna fare delle letture di completamento perché esistono gli equivalenti italiani dei Balfour e Said, per ovvi motivi di lingua e di minore importanza, non li cita. Altrettanto interessànti, e le più dettagliate, sono le citazioni e le interpretazioni che rientrano più specificamente nella competenza professionale di Said, quelle degli scrittori: Nerval, Chateubriand, Flaubert. Più problematiche, ma ugualmente interessanti, quelle di autori che si sono occupati specificamente di nazioni e nazionalismi, come Renan, giustamente molto citato, che, malgrado la sua grande apertura sull'autodeterminazione dei popoli e dei confini delle nazioni (facciamoli votare, "sopportiamo lo sdegno dei forti") aveva qualche dissimetria. Di estremo interesse, proprio perché complessa e contraddittoria, la parte dedicata a Massignon, di cui già si è detto. Singolarmente prive di spessore sono invece le osservazioni e le citazioni che riguardano i secoli · precedenti la rivoluzione industriale e l'imperialismo europeo. Tralasciando la parte storica, anche per incompetenza, vorrei dedicare un po' di spazio a riscattare dall'accusa di orientalismo un autore che orientalista non era, George Orwell. L'esempio può servire a mostrare un caso tra gli altri di deformazione unilaterale del testo per sostenere la tesi. Scrive Said: "Gli abitanti delle colonie, come quelli che George Orwell vide nel 1939 a Marrakesh, andavano considerati niente altro che una specie di emanazione continentale, africana, asiatica, orientale: 'Quando percorrete a piedi una città come questa - duecentomila abitanti, ventimila dei quali non possiedono assolutamente nulla fuorché gli stracci in cui sono avvolti - quando vedete come vivono gli abitanti e, soprattutto, la facilità con cui muoiono, faticate a convincervi di stare camminando in mezzo ad altri esseri umani. I volti sono bruni, e poi quanto sono numerosi! Davvero sono fatti anch'essi di carne, come voi? Hanno forse dei nomi? O si tratta semplicemente di una materia scura, indifferenziata, non più individuali di quanto lo siano le api o i coralli? Sorgono dalla terra, s'affannano e patiscono la fame per qualche anno, infine sprofondano nei tumuli senza nome dei cimiteri e nessuno nota che se ne sono andati: i tumuli stessi tornano presto a confondersi col terreno circostante., ... il non europeo che gli europei conoscono corrisponde alla citata descrizione di Orwell. È motivo di curiosità e divertimento, oppure atomo di una iridifferenziata comunità cui si fa riferimento, sia nel discorso colto che in quello comune con termini generali come 'orientale', 'africano', 'giallo', 'bruno', 'mll6ulmano' ." Sì: ma Orwell hà anche scritto: "Dopo essere rimasto cinque anni nella polizia dell'India, odiavo l'imperialismo che stavo servendo con un'intensità di cui probabilmente non riesco a dare l'idea." (Tra sdegno e passione, p. 8) E, nello stesso periodo: "Chi ha il coraggio di essere sincero dovrà ammettere che i mongoli, nel loro complesso, hanno corpi assai più belli dei bianchi. Paragonate la pelle serica dei birmani, che non si sgrana, non si corruga se non dopo i quarant'anni, e poi semplicemente appassisce

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==