Linea d'ombra - anno X - n. 68 - febbraio 1992

I sussidi occidentali aiutano davvero i paesi poveri? Non è facile rispondere. È possibile fare esempi in cui i sussidi occidentali sono stati molto utili per progetti specifici e ovviamente vi sono moltissimi esempi in cui sono stati sostanzialmente espropriati dai governi. È chiaro che sussidi ben mirati verso un paese in grado di riceverli, senza troppa dispersione dei fondi, sono un fatto positivo. La condanna aprioristica del Foreign Aid è ovviamente errata.D'altra parte non mi pare una soluzione di lungo periodo. Sulla base di quarant'anni di esperienza, sappiamo che i paesi africani e asiatici che sono cresciuti non lo devono agli aiuti. Poniamo però che vi sia un paese che abbia un enorme problema di debito, un governo che sia disposto ad assorbire il sussidio e a fare qualcosa con esso: come si può sostenere che l'aiuto sia dannoso? Il grande dilemma, almeno per chi è interessato a questioni di libertà, è questo: è giusto aiutare un regime che aumenterebbe ancora di più la sua forza coercitiva? È un dilemma tipicamente impossibile. Una risposta furono le famose conditionalities, lé clausole preventive. Sì. Dieci anni fa, le clausole ,erano considerate uno strumento indegno, poiché servivano ad imporre i propri valori ad un altro paese, anche se le clausole potrebbero far riferimento alla finalizzazione del progetto e non al più generale assetto del paese. Negli anni Settanta, ciò sembrava un modo di interferire negli affari interni di un altro paese e gli Stati Uniti in America Latina hanno usato le clausole in questo senso. Esse possono dare linfa a regimi che fanno cose orribili. D'altra parte, l'idea generale di clausole favorevoli a paesi che preferiscono rispettare i diritti civili e politici non mi sembra un'idea assurda. Potrebbe specificare meglio i criteri che seguirebbe?. · Non vorrei essere frainteso. Mi sono riferito sinora ad aiuti per lo sviluppo economico e non a tutti quegli aiuti indirizzati, ad esempio, ad alleviare le conseguenze di una carestia. Naturalmente non ha nessun senso parlare di clausole in questi casi. Non credo affatto che la Banca Mondiale o il Fondo Monetario Internazionale dovrebbero dare fondi in base a valutazioni politiche. Sto ora parlando soprattutto dell'aiuto nazionale, che va da un paese all'altro. Veniamo ai criteri. Credo ci si debba chiedere, quando si decide un credito: quale sarà l'effetto, magari non immediato, sul 20% dei più poveri di quella società? Il destino dei più poveri tra i poveri deve essere il nostro criterio di valutazione. Questo è certamente un buon indice grezzo in base a cui valutare le politiche. Si parla molto di integrazione economica: cosa ne pensa? Sono certo di sembrarle pessimista. Ma trovo molto difficile pensare, in un'accezione profonda, a 1) il Terzo Mondo; 2) gli aiuti; 3) il ruolo dell'integrazione, poiché non vedo crescere nessuna integrazione economica tra i paesi poveri, a causa degli odi reciproci che li dividono, come non credo che nascerà un nuovo ordine economico internazionale che comprenda il ''Terzo Mondo". Vi sarà una maggiore interdipendenza, ma essa sarà soprattutto tra le democrazie occidentali e i paesi dell'Europa dell'Est. Questa interdipendenza toccherà sempre più il Giappone, forse molto presto la Corea del Sud e Taiwan. Per usare le categorie di prima, l'interdipendenza sarà tra il Primo e il Secondo Mondo; ben poco di tutto ciò riguarderà il mio paese e l'Africa. Dunque i fattori culturali sono importanti anche per la cooperazione economica? Certo. È molto difficile sedere allo stesso tavolo per negoziare politiche commerciali con una persona che odi. L'idea che l'individuo possa essere multidimensionale e che ognuna di queste dimensioni sia in grado di operare indipendentemente dall'altra, è un concetto non molto diffuso. La tolleranza sarebbe molto utile anche per l'economia. IL CONTESTO Suun saggio di EdwardSaid. Noi e loro Francesco Ciafaloni Bisogna stare attenti alle etichette. Non si può fare a meno di usarle: le si usa senza pensarci: possono combinare grossi guai se si sbaglia etichetta o ci si scorda che si tratta di etichette. Si dice islam, o ebraismo, o cristianesimo ..Li si può usare come termini fattuali: nomi di forme, spesso difficilmente sep;crrabilitra loro, della religione nel Mediterraneo ed in un'area molto più vasta in cui le tre religioni si sono estese nei secoli. Anzi, li si può usare in più di un senso attuale, intendendo, per esempio, i testi sacri, o il complesso delle norme consolidate, o il complesso dei riti, delle pratiche diverse, effettivamente in uso in qualche parte del mondo. Li si può usare però anche in senso ideologico, trasformarle in entità sostanziali, biologiche, razziali. · Può allora accadere, come è accaduto dopo la fine della guerra del Golfo, di trovarsi davanti ad un articolo di giornale che commenta la sconfitta dell'Iraq intitolato La sconfitta dell'Islam. L'islam diventa l'elemento mblematico, sostanziale, caratterizzante di intere aree geografiche, il cementoignotoetemibiledi un'entità p_oliticapercepita come pericolosa, una identità sostanziale. Un fenomeno analogo avviene, è massicciamente avvenuto, con il termine "Oriente" in quanto contrapposto ad "Occidente", che da un'area geografica è passato ad indicare il complesso multiforme ed irriducibile ad unità delle culture non europee, e cioè non industriali, non scientifiche, e perciò religiose, subalterne, irrazionali, sensuali, decadenti. Orientalismo di Edward Said ( trad. it. di Stefano Galli, Bollati Boringhieri, Torino 1991) affronta lo stereotipo dell'oriente e il fenomeno dell'orientalismo nella forma più ampia e globaie, sostenendo la tesi che lo stereotipo dell'oriente e )'esistenza dell'orientalismo sono profondamente legati al dominio che gli stati dell'occidente hanno esercitato o cercato di esercitare su tutti gli orienti e sono un elemento essenziale della formazione della identità stessa dell'occidente. L'oriente è l'altro, passivo e incapace di percepirsi autonomamente, indispensabile alla definizione di noi stessi, che siamo il loro contrario. . Dall'introduzione, che si apre con due citazioni, di Marx e Disraeli ("Non possono rappresentare se stessi: devono essere rappresentati" e "L'Est è una carriera"), alla conclusione il libro è una serrata requisitoria condotta su testi letterari, storici, politici per dimostrare la globalità dell'orientalismo, la sua discendenza diretta dal fine di dominare e governare, il suo facile uso di una tradizione plurisecolare di coritrapposizione all'oriente, la sua pervasività. Il quadro tecnico usàto è quello foucaultiano di L'archeologia del sapere e Sorvegliare e punire . Disegno di Gunter Grass. 9

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