FEBBRAIO1992 · NUMERO68 LIRE9.000 ··mmagini, discussioni--espettac~lo. UOMINEINAZIONI. ,:·. STUDEDIPACE I STUDEDIGUERRA QUANTSEUOLDEISCARP...E ·CHATWIINTERVISTATO DAIGNATIEFF POESIDEISTEVISEMITH DALLSAPAGNA: RAFAESLINCHEFZERLOSIP MANUEVLIZQUEMZ O.NTILBAN DALLSAOMALINAU: RUDDIFNARAH OSMAANHMESDUIGIORNDIIMOGADISCIO MUSICAIN: CONTCROI NROBERWTYAffEFREDFRITH SPED.IN ABB. POSTALEGR. 111-70%V.ÌA.GAFFURIO ,d. 2012-dMILANO
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LIIAD'11911A mensile di cultura e società Provincia di Milano Assessorato alla cultura NORSDUDESOTVEST Noi e gli altri , Abbiamo invitato scrittori di provenienze diverse, accomunati dall'interesse per i problemi di.fondo del loro paese e per il dialogo tra il "Nord" e il "Sud" · del mondo, a discutere delle grandi dicotomie che presiedono a_lfuturo di tutti in questo difficile scorcio di finale di secolo, un secolo forse decisivo -28 gennaio 1992, ore 21 Sala Congressi della Provincia, Via Corridoni 16 Milano "INCONTRO CON L'ASIA" Yuko Tsushima (Giappone) Acheng (Cina) Introduce Renata Pisu 13 febbraio 1992, ore 21 Museo della Scienza e della Tecnica Via San Vittore 19 Milano "SCRIVERE IL PRESENTE" Ryszard Kapuscinski (Polonia) Introduce Marcello Flores · per le sorti del pianeta. 3 marzo 1992, ore 21 $afa Congressi della Provincia, Via Corridoni 16 Milano · "SOTTO GLI OCCHI DELL'OCCIDENTE" R.Sanchez Ferlosio (Spagna) Per O/ov Enquist (Svezia) Ernest Gellner (Gran Bretagna) Introduce Danilo Manera 19 marzo 1992, ore 21 Aula Magna, Università Cattolica Largo -Gemelli 1Milano - ,Il& ~~~~ ..;-<~ .. ~ . ·ç.., 31 marzo 1992, ore 21 Museo della Scienza e della Tecnica Via San Vittore 19 Milano "GENERI E SAPERI" Lygia Fagundes Telles (Brasile) Evelyn Fox Keller (Stati Uniti) Grace Paley (Stati Uniti) Introduce Maria Nadotti 7 aprile 1992, ore 21 Sala Congressi della Provincia, Via Corridoni 16 Milano "DAL CENTRO DELL'EUROPA" "CULTURE A CONFRONTO: Christa Wolf (Germania) Kazimierz Brandys (Polonia) Introduce Cesare Cases IMMAGINI E CONFLITTI." Yi Mun-yol (Corea) Amitav Ghosh (India) Introduce Goffredo Foti Li_nead'ombra edizioni, Via Gaffurio 4 Milano, tel. 02/ 6690931 Fax 6691299
Gruppo redazionale: Alfonso Berardinelli, llNIDA I I MBRA Gianfranco Bettin, Grazia Cherchi, Marcello Flores, Goffredo Fofi (direttore), Piergiorgio Giacchè, Gad Lemer, Luigi Manconi, Santina Mobiglia, Lia Sacerdote (direzione editoriale), Marino Sinibaldi. anno X febbraio 1992 numero 68 Collaboratori: Adelina Aletti, Chiara Allegra, Enrico Alleva, Giancarlo Ascari, Fabrizio Bagatti, Laura Balbo, Mario Barenghi, Alessandro Baricco, Stefano Benni, Andrea Berrini, Giorgio Bert, Paolo Bertinetti, Francesco Binni, Lanfranco Binni, Luigi Bobbio, Norberto Bobbio, Giacomo Borella, Franco Brioschi, Marisa Bulgheroni, Isabella Camera d'Afflitto, Gianni Canova, Marisa Caramella, Caterina Clirpinato, Cesare Cases, Roberto Cazzola, Francesco Ciafaloni, Luca Clerici, Pino Corrias, Vincenzo Consolo, Vincenzo Cottinelli, Alberto Cristofori, Mario Cuminetti, Peppo Delconte, Roberto Delera, Stefano De Matteis, Piera Detassis, Vittorio Dini, Carlo Donolo, Riccardo Duranti, Saverio Esposito, Bruno Falcetto, Giorgio Ferrari, Maria Ferretti, Ernesto Franco, Guido Franzinetti, · Giancarlo Gaeta, Alberto Gallas, Nicola Gallerano, Fabio Gambaro, Roberto Gatti, Filippo Gentiloni, Gabriella Giannachi, Giovanni Giovannetti, Paolo Giovannetti, Giovanni Giudici, Bianca Guidetti Serra, Giovanni Jervis, Roberto Koch, Filippo La Porta, Stefano Levi della Torre, Mimmo Lombezzi, Marcello Lorrai, Maria Madema, Marià Teresa Mandalari, Danilo Manera, Bruno Mari, Edoarda Masi, Roberta Mazzanti, Roberto Menin, Paolo Mereghetti, Diego Mormorio, Maria Nadotti, Antonello Negri, Grazia Neri, Luisa Orelli, Maria Teresa Orsi, Pia Pera, Silvio Perrella, Cesare Pianciola, Guido Rj.gni,Giovanni Pillonca, Bruno Pischedda, Oreste Pivetta, Pietro Polito, Giuliano Pontara, Giuseppe Pontremoli, Sandro Portelli, Fabrizia Ramondino, Michele Ranchetti, Marco Revelli, Marco ResteHi, Alessandra Riccio, Fabio Rodriguez Amaya, Paolo Rosa, Roberto Rossi, Gian Enrico Rusconi, Nanni Salio, Paolo Scarnecchia, Domenico Scarpa, Maria Schiavo, Franco Serra, Joaqufn Sokolowicz, Piero Spila, Paola Splendore, Antonella Tarpino, Fabio Terragni, Alessandro Triulzi, Gianni Turchetta, Federico Varese, Bruno Ventavoli, Emanuele Vinassa de Regny, Tullio Vinay, Itala Vivan, Gianni Volpi. Progetto grafico: Andrea Rauch/Grnphiti Ricerche redazionali: Alberto Cristofori, Natalia Delconte, Marco Papietti Pubblicità: Miriam Corradi · Esteri: Pinuccia Ferrari Produzione: Emanuela Re Hanno contribuito alla preparazione di questo numero: Paola Bensi, Gianna Marchesi, Caterina Pilenga, Bianca Tarozzi, GennaroTesone, la rivista "Concilium", le case editrici e/o, Ubulibri e le Edizioni Lavoro, le agenzie fotografiche Contrasto,_Effigiee GraziaNeri. Editore: Linea d'ombra Edizioni srl Via Gaffurio 4 - 20124 Milano Tel. 02/6691132. Fax: 6691299 Distrib. edicole Messaggerie Periodici SpA aderente A.D.N. - Via Famagosta 75 - Milano Tel. 02/8467545-8464950 Distrib. librerie PDE - Viale Manfredo Fanti 91 50137 Firenze -Tel. 055/587242 Stampa Litouric sas - Via Pucc.ini6 Buccinasco (MI) - Tel. 02/45700264 Pellicole: Grafotitoli -·Sesto S. Giovanni (MI) LINEA D'OMBRA- Mensile di storie, immagini, discussioni. Iscritta al tribunale di Milano in data 18.5.87al n. 393. Direttore responsabile: Goffredo Fofi Sped. Abb. Post. Gruppo III/70% Numero 68 - Lire 9.000 I manoscritti non vengono.restituiti. Si pubblicano poesie solo su richiesta.Dei testi di cui non siamo stati in grado di rintracciare gli aventi diritto, ci dichiariamo pronti a ottemperareagli obblighi relativi. ILCONTESTO 4 Marce_lloFlores Il peso della tradizione nella nuova Russia 6 Federico Varese Ombre e nazioni. Il caso georgiano 7 Artha Dasgupta Fattori culturali e cooperazione economica 9 Francesco Ciafaloni Noi e loro. Su un saggio di Edward Said 12 Silvia Calamandrei Tre storie della Cina contemporanea "13 Hassan Osman Ahmed Diario da Mogadiscio 18 Alexander Langer Diversità, autodeterminazione e cooperazione dei popoli e, in antologia, Carlo Dossi su chi mangia quando vuole e chi mangia quando può (a p. 22). CONFRONTI 25 Mario Barenghi Bizzarria è realtà in Mari, Cavazzoni, Baricco 28 Guy Scarpetta La seconda morte di Tadeusz Karùor 30 Vincenza Consolo ; Scrittori e bambini. Su Rosso Malpelo di Verga e gli autori di questo numero a p. 78 POESIA Stevie Smith STORIE M. Vdzquez Montdlban Nuruddin Farah INCONTRI. Il cinico bebè e altre poesie a cura di Gilberto Sacerdoti La vita.privata del dottor Betriu Conoscersi 41 Rafael Sdnchez Ferlosio Meglio uomini pubblici che uomini politici a cura di Danilo Manera 57 Alexandru Darie I cani bianchi · a cura di Gabriella Giannachi 64 Bruce Chatwin Quante suole di scarpe ... a cura di Michael lgnatieff 73 Robert Wyatt, Fred Frith Musica "a sinistra" a cura di Giacomo Barella . SAGGI Norman Manea Artisti e dittatori. L'apprendistato del clown Augusto LARRRA VISTADALLALUNA5 Medici e pazienti: G. Bert, Aspetti etici della decisione medica (a p. 2); R. Landolfz, · Educazione e diseducazione alla salute. L'esperienza del Cesav di Napoli (a p. 5); M. McGuire, Religione, salute e malattia (a p. 9). Sindacalisti di base: D. Segre, Viaggio tra i delegati Cgil, con una nota di G. Lerner (a p. 13). Educazione alla pace: D. Novara, Dalla manipolazione all'ascolto (a p. 21); E. Euli, Giochi e paradossi (a p. 26). Educatori e diseducatori: Lamberto Borghi, Che il presente sia carico di valori ..., a cura di G. Pontremoli (a p. 28). · La copertina di questo numero è di Franco Matticchio. Le foto del supplemento sono di Luigi Balde/li (Contrasto). Abbonamento annuale (11 numeri): ITALIA L. 75.000, a mezzo assegno bancario o c/c. postale n. 54140207 intestato a Linea d'ombra. ESTERO,L. 90.000.
IL CONTESTO Il peso della tradizione nella nuova Russia Marcello Flores Negli ultimi mesi i giornali hanno dedicato sempre più spazio agli avvenimenti dell'Urss/Csi, alla progressiva rovina dell'Unione e alla faticosa e contraddittoria nascita della Comunità. A questa massa di notizie non ha corrisposto, tuttavia, una maggiore ricchezza dell'informazione, che ha solo aggiunto alla tradizionale analisi cremlinologica una serie ripetitiva di istantanee di vita vissuta, quasi non ci fosse alternativa tra le dichiarazioni delle élites (oggi assai più numerose e contrastanti) e l'immagine immediata di miseria e rassegnazione della gente. A questa capacità conoscitiva estremamente ridotta rispetto alle energie coinvolte nell'opera di informazione (i maggiori quotidiani hanno due-tre corrispondenti che ripetono spesso le medesime notizie tratte dalle agenzie e dai giornali locali) si accompagna la tentazione continua di partecipare agli schieramenti contrapposti, ai conflitti e alle lotte in corso, nella presunzione che questo "prender parte" faccia capire di più o addirittura possa pesare sul corso stesso degli eventi. E' possibile guardare con altri occhi agli avvenimenti russi, privilegiando la comprensione - certamente difficile - dei processi in corso, in modo da sfuggire alla continua altalena di esaltazione e depressione che sembra accompagnarli? Bisognerebbe innanzitutto accettare l'idea che i territori dell'ex Unione Sovietica sono immersi in una "fasè". storica abbastanza lunga, oltre che tormentata, destinata a continuare chissà per quanto prima di stabilizzarsi in equi libri non precari, in cui non vi è consonanza immediata tra quanto accade alla superficie (gli avvenimenti di cui veniamo a conoscenza e tutti parlano) e quanto sta mutando in profondità, sia a livello delle strutture economiche e sociali che di quelle mentali e culturali. Di questa fase una cosa è certa: la lotta politica sta avvenendo ali' interno di un ceto omogeneo come cultura e tradizione, estremamente frammentato e diversificato come prospettive, obiettivi, capacità e preparazione. La nomenklatura comunista è il terreno esclusivo in cui sta avvenendo la formazione delle nuove élites dirigenti, anche se non si può sottovalutare la trasformazione avvenuta in gruppi e individui nei sei anni di perestrojka. Dirigenze locali, gruppi un _tempo in secondo piano, quadri intermedi o inferiori, tecnocrati, hanno lottato senza esclusione di colpi contro lo strato superiore della burocrazia da cui erano stati cooptati in posizione subordinata. Questa lotta politica è avvenuta in un crescente vuoto di potere e di delegittimazione dell'autorità, che ha raggiunto il culmine nella fase successiva al golpe di agosto e si è protratta fino agli accordi di Minsk tra le repubbliche slave. Dopo il golpe era inevitabile che venisse decretata la morte del Pcus, anche se ciò è parso curiosamente "antidemocratico" a chi si proclama ancora comunista ma vorrebbe non venir confuso con i crimini commessi in suo nome. La fine del Pcus, altrettanto inevitabilmente, non poteva che condurre alla fine dell'Urss che su quel partito fondava la sua legittimità e la sua forza. Più che un ostaggio nelle mani di Eltsin, Gorb.aciov lo era in quelle della 4 storia, e avrebbe potuto mantenersi al potere solo grazie all'appoggio dell'Armata Rossa, cioè con una strategia bonapartista da lui stesso sempre onestamente contrastata. Occorre dare di Gorbaciov un giudizio storico, sia pure solo abbozzato e necessariamente S'oggetto a ripensamenti, senza cadere, però, nella trappola dell'immagine da lui rappresentata in Occidente, anche se si tratta di un aspetto da tenere nella dovuta considerazione. Che si sia trattato di una figura di primo piano, tra le pochissime degne di venir ricordate nel XX secolo, è fuori luogo. Come lo è la "gratitudine" che tutti gli dovrebbero pet ayer innestato e accelerato un processo che non era inevitabile trovasse la strada della glasnost e della perestrojka, ci0è di una democratizzazione si&pure incompleta. Cosa ha portato Gorbaciov a frenare le riforme da lui stesso auspicate e a invischiarsi con un apparato da lui stesso sconfitto, abbandonando le forze democratiche ad una radicalizzazione in parte astratta e in parte demagogica ma sicuramente più consapevole delle profonde trasformazioni ormai avvenute nel corpo sociale e nelle stesse istituzioni? Gorbaciov aveva una cultura -comunista, convinto che solo una riforma dall'interno potesse avere successo. Lo sorreggeva, tuttavia, l'intelligenza di accorgersi che la realtà correva più delle intenzioni, ma non ha avuto il coraggio di affidarsi completamente ad essa. Il timore cfie il Pcus fosse ancora saldo al potere e pericoloso, da cui la mediazione "a destra" operata ali' inizio del 1991 mettendosi accanto i futuri golpisti e licenziando i suoi sostenitori, è stato l'effetto più disastroso di un distacco dalla realtà forse inevitabile. In sei anni Gorbaciov non è riuscito a imporre garanzie e diritti, ma solo a democratizzare i privilegi e ad allentare l'autoritarismo. Il suo merito più grande è stata la glasnost, che ha permesso il formarsi di un'opinione pubblica che ha costituito l'unico vero e grande argine al riflusso totalitario e ai sogni golpisti o neoautoritari di tanta gente. Incapace o impossibilitato a trovare in fretta una nuova legittimazione e nuove coordinate giuridiche e formali su cui attestare la nuova dialettica quasidemocratica, Gorbaciov è stato una sorta di giacobino conservatore e immobilista: rifiutandosi di usare "dinamicamente" i grandi poteri che ancora aveva, li ha usati solo come freno o per compromessi al ribasso nel timore che fossero più formali che reali. Sul piano istituzio,!lalepiù generale (l'impero e il rapporto con le repubbliche) Gorbaciov è stato miope: avesse concesso maggiori autonomia e indipendenza e accettato la strada della Confederazione non avrebbe innestato quella radicalizzazione nazionalista che è aumentata e açcelerata dopo ogni suo rifiuto. Il tempo, su questo terreno, ·è stato un elemento essenziale e sottovalutato, anche se c'era l'esempio jugoslavo a costituire per tutti un vivente e drammatico monito. Ponendosi come mediatore ha dimenticato che si media tra due posizioni reali; altrimenti la mediazione risulta un permanente compromesso di potere che poggia sempre più sul vuoto e trascina tutti con sè nella sua inevitabile caduta.
Foto di Jeremy Nicholl ( G. Neri). Gorbaciov avrebbe potuto cercare di attuare in Urss una nuova Nep, privilegiando la riforma economica e mantenendo fermo il potere del partito. Scegliendo la strada della riforma politico-economica combinata non poteva subordinare la seconda ad una vittoria della prima. Essere giunti ad accettare "il mercato" dopo infruttuosi tentativi (a parole) di individuare una terza via ha reso impossibile sperimentare i metodi propostigli dai.suoi collaboratori, lasciando che fosse il "laissez faire" della pianificazione fallita a determinare la sempre più tragica realtà economica e sociale del paese. Che quello economico fosse un problema grave, il problema per eccellenza assieme a quello dei rapporti tra le repubbliche e di un loro coordinamento centrale, lo avverte adesso anche Eltsin. La scelta del successore di Gorbaciov sembra essere in parte diversa (la terapia-shock dei prezzi e di una pri vatizzazione difficile da attuare) e in parte analoga (l'autonomia della politica come terreno generale di risoluzione dei problemi), ma non pare destinata a maggiori successi, almeno sul breve periodo. La mancanza di potere e di legittimità è ancora forte, anche se la vittoria di Eltsin sembra aver prodotto una pausa di relativa stabilizzazione. Sulla figura di Eltsin si sono pronun~iati un po' tutti, dipingendolo come un pericoloso nuovo zar o come il meritevole affossatore del comunismo. Bisognerà continuare a discutere se la sua intelligenza politica sia più grossolana di quella di Gorbaciov ma sorretta da un fiuto più aç:uto;e se la sua adesione alla democrazia altro non risieda che nell'odio per quel comunismo di cui fino a ieri si era nutrito. Al di là dei tratti psicologici e culturali, comunque, la caratteristica principale del suo opeILCONTESTO rare è quella di aver fatto e voler fare della Russia l'erede e insieme il giustiziere dell'Urss, l'esecutrice della condanna e del testamento, il notaio della vendetta della Storia e il garante della continuità della stessa. Un compito così ambiguo e contraddittorio non poteva venir gestito che da un personaggio equivoco e indefinibile, che alterna momenti di assoluta lucidità razionale a un senso di onnipotenza o a una triviale volontà di vendetta che sembrano appartenere al passato. E' sui caratteri più profondi della fase storica che vive la Russia che ci sarebbe bisogno di lumi, non tanto sui personaggi di primo o secondo piano che dominano attualmente la scena. E' difficile abbandonare d'un colpo un'analisi fortemente orientata sul versante ideologico e "personale". Chi ha detto per anni, e ripetuto saccentemente negli ultimi mesi, che ogni male dell'Urss trovava la sua radice e spiegazione nell'ideologia comunista o nella protervia di un potere inventato da Lenin per distruggere l'Occidente, fa fatica, oggi, a distinguere e a orientarsi (e ancor meno a orientare) nella contraddittorietà dei simboli e degli slogan, nella superficialità delle proposte e degli obiettivi, nell'imbarbarimento di una democrazia che non è ancora nata. C'è bisogno, per prima cosa, di affrontare quanto accade in Russia e nelle ex repubbliche sovietiche senza illudersi che il richiamo ai "valori" dell'Occidente (la democrazia, il mercato, ecc) sia nulla più di uno slogan o di un bisogno diffuso ma incapace di concretizzarsi. Ma anche senza un superficiale e ottuso atteggiamento di superiorità che si è ormai diffuso ed è ridiventato senso comune: se nella democrazia di massa di tipo occidentale i simboli della libertà sono Reagan o il generale Schwarzkopf, perché scandalizzarsi se in un regime di massa ambiguo e in trasformazione come quello russo possono di più Eltsin.e i suoi vecchi amici di Sverdlosk piuttosto che volti più capaci o comunque più umani come quelli di Shevardnaze o Jakovlev? Molto di quello che accadde in seguito al regime comunista instaurato nel 1917 fu dovuto al programma, ali' ideologia, alla concezione del potere che avevano i bolscevichi. Molto di più, tuttavia, fu quello che accadde perché le "onde lunghe della storia" e i condizionamenti di un mondo sempre più intercorrelato interferirono con quella ideologia e la modificarono, trasformando uomini, gruppi, idee, interessi. Se questo è stato vero per un progetto "forte" come quello bolscevico, come non credere che il peso del passato e di quanto accade fuori dalla Russia sarà ancor più decisivo in una realtà dove nessuno sembra avere uno straccio d'idea di come far marciare in avanti il paese? La durata del "potere" di Lenin e di Gorbaciov è stata all'incirca la stessa. Le loro qualità e il loro modo d'agire sono invece incomparabili, come anche la loro fine e il loro destino "pubblico". Entrambi, tuttavia, avevano un lucido programma di governo che, nello scontro con la realtà imprevista e imprevedibile, si è trasformato in qualcosa di diverso, che hanno cercato tutti e due di padroneggiare e controllare fin quando è stato possibile. Entrambi, in questo figure tragiche, non vedevano nessun altro in grado di continuare il lavoro intrapreso, e .temevano un futuro preda di forze più grandi degli uomini che dovevano dominarlo. C'è solo da sperare, mentre ci sforziamo di comprendere meglio cosa sta accadendo in questo tumultuoso fine millennio, che abbia ragione il vecchio Marx e che la storia, quando si ripete, non sia più una tragedia ma soltanto una farsa. s
IL CONTESTO Ombree nazioni. Il caso georgiano Federico Varese L'idea di un uomo senza nazione sembra imporre uno sforzo troppo grande all'immaginazione moderna. Adelbert von Chamisso, un emigré francese in Germania durante il periodo napoleonico scrisse un romanzo su un uomo che aveva perso la sua ombra: ~uel Peter Schlemihl che estimatori e conoscenti comi_nciarono a evitare quando scoprirono la sua singolare anomaba. Qualcuno ha avanzato il sospetto che l'Uomo senza Ombra fosse una metafora dell'Uomo senza Nazione 1 : chi non appartiene a una nazione, o almeno a un'etnia che aspiri a diventare nazione manca di identità, di un corpo capace di riflettere. L'o~bra di Peter Schlemihl si aggira con sempre più forza nei dibattiti e nelle analisi sulle sorti dell'Europa post-comunista. Dopo una breve lotta con tentati vi di spiegazione alternati vi, la Spiegazione Etnica sembra essere rimasta l'unica sul cam?o: non vi è nulla di più naturale dell'aspirazione di un gruppo etmco (definita in vari modi) a diventare nazione. V~ngono c~~ì sriegati i conflitti che oppongono Serbi a Croa~i, Azer?aIJa~i ad Armeni, Osseti a Georgiani, Ceceno-Inguscetl a Russi, certi che la lista verrà presto infoltita. . . Proviamo ad addentrarci nella Georgia transcaucasica, oggi attraversata dalla guerra civile, e vedere cosa ci permette di capfre la Spiegazione Etnica. La Georgia SSR conteneva una r~pu_bbhca autonoma, l' Adzhar (georgiani ~usulmani), e due re~ion~ autonome l' Abkhazia e il Sud Ossezia. Il resto della repubblica era divis~ in distretti. La regione ha conosciuto negli ultimi anni violenti conflitti inter-etnici, con epicentri in Abkhazia, nel distretto MamÌ.Jeli-una enclave azerbaijana in Georgia-e nel Sud Ossezia. (Secondo una comrriissione del Ministero degli Interni sovietico, 250 Sud Osseti sono morti tra il dicembre '90 e il settembre/ottobre '91.) Gli Abkhazi reclamano l'indipe·ndenza dalla Georgia, i Sud·Osseti vogliono unirsi con il Nord Ossezia - che si trova in territorio russo -, mentre gli Azerbaijani del distretto Mamueli aspirano all'autonomia. Inoltre i Meskheti, circa 400.000 georgiani musulmani che vivevano al confine con la Turchia, deportati da Stalin in Asia Centrale nel 1944, chiedono l'accelerazione del processo di rimpatrio (il 4 giugno 1988 c'è stata una manifestazione, organizzata dai 10.000 Meskheti già rimpatriati, nella città di Borzhomi). · · . . Fin qui tutto bene. Ora i Georgiani vengono a ncordarci quanto povero sia il passepartout Etnico-Nazionale: Per~hé "fratelli", "uomini dello stesso sangue" dovrebbero u,ccidersi tra loro? Evidentemente, essere dello stesso sangue non basta a spiegare l'assenza di conflitto, come l'essere di sangue diverso non basta a spiegare il conflitto. L'etnicità di per sé. non è categoria esplicativa, ma uno dei tanti concetti su cui la ricerca sociologica si adagia, con il benestare degli attori sociali stessi, creatori di miti e di tradizioni popolari, ben felici di ottenere una legittimazione accademica. È dunque urgente scògiporre queste entità misteriose eppure potentissime, cercare di riconoscere i n:ieccanismi che le go~ernano, per capire perché a volte compa10no come protago~iste, mentre altre scompaiono dietro le quinte. I gruppi etnici sono coalizioni di individui. Ciò eh~ r~nde tal~ coalizioni peculiari consiste nei segnali che ne definiscono i limiti. Colore della pelle, lingua, nome, sembrano caratteri piuttosto resistenti al cambiamento e uni versal~e~te intelligibi ~- li. Come si accorse suo malgrado Peter Schlermhl, mvece, questi segnali mutano di significato, scompaiono, sono fragili, manipolabili, creati in certe epoche e distrutti in altre. !noltre, hanno bisogno di essere protetti per durare nel tempo: Il _colore_dell~ pelle si "diluisce" drammaticamente dopo poch1 matnmom misti, il nome, possibile indicatore di origine etnica, può essere cambiato, Ufficio Anagrafe permettendo, e pare assodato c~e· individui moderatamente razionali siano in grado di parlare più di una lingua senza cadere vittime di irreparabili crisi di identità. · · Cambiare connotati etnici non è necessariamente desiderabile, ma è possibile2; l'Unione Sovietica è uno dei luoghi dove più tenacemente nel Novecento tali connotati sono ~tati ?rot~tt~ contro la loro stessa plasticità3. Come sanno bene gh ex cittadm1 sovietici, in URSS era in vigore il sistema-introdotto da Stalin nel dicembre 1932 - dei "passaporti interni", che registravano l'origine etnica di ciascun cittadino. La misura si rese necessar~a per garantire quote nell'istruzione superi?re e _n~llaburo_crazia a certe minoranze. Inizialmente, la nazionahta da registrare veniva scelta sulla base di una più o meno volontaria autoidentifica:done (nel 1933 ne vennero censite 190). Dopo alcuni anni, la libera scelta della nazionalità, o la modifica di quella registrata in precedenza, furono proibite. Secondo la non_nati~ain ~igo~e nei successivi cinquanta anni, l'affiliazione etmca di un cittadino veniva registrata in base alle voci corrispondenti sui passaporti dei genitori. La burocrazia sovietica aveva approntato un sistema che serviva a gestire anche un altro problema che stava sempre più a cuore ai leader di quel paese: le migrazioni interne. Infatti, la registrazione etnica legava il cittadino al lu?go di residenza4, che poteva essere cambiato solo con un part1colare permesso. Vennero così istituite rigide barriere tra le nazionalità, significati vi processi di contaminazione non erano possibili~. Vi era però qualche vantaggio: le diverse etnie autoctone divennero destinatarie di diritti e privilegi. L'intera URSS si fondava su una grande "lottizzazione etnica" e·i labili segnali che distinguevano i gruppi venivano protetti dalla polizia. Il caso sovietico illumina anche il rapporto tra risorse e protezione dei segnali. Tali segnali vengono protetti - o comunque definiti con la maggior precisione poss~bile - s~ permettono l'accesso a risorse scarse. Non a caso i passaporti interni nacquero con il sistema delle quote nelle scuole. La risorsa "istruzione" era distribuita in base all'affiliazione etnica, e quest'ultima veniva rafforzata dalla. burocrazia che doveva riconoscere chi aveva "diritto" al posto a scuola. Tbilisi, Georgia (foto Nistratof/Eostnet/Contrasto)
Le coalizioni di individui che competono per ottenere risorse non sempre, però, si distinguono per colore etnico: Le differenze salienti possono essere altre. Nel caso georgiano, l'alleanza proGamsakhurdia (Tavola rotonda-Georgia libera) si scontra con un cartello di oppositori (Il Movimento del Congresso): gli uni si cingono di simboli, bandiere e slogan diversi da quelli usati dagli altri 6 • Le coalizioni di interessi non vivono nel vuoto simbolico, ma hanno bisogno di bandiere, drappi, colori per riconoscersi, al pari dei gruppi etnici, particolarmente tenaci nella ex-URSS grazie alla politica delle nazionalità del precedente regime. Nulla impedisce però che si formino nuove aggregazioni, fondate su discrimini diversi (di clan, di partito o ... di classe). Le nazionalità sono state finora particolarmente attive poiché il criterio "etnico" di distribuzione di risorse era in pericolo. Entrato in crisi e poi venuto meno il garante (l'URSS), si sono scatenati i conflitti. Improvvisamente quel certo segno (debitamente registrato· sul passaporto) non assicurava più risorse cruciali, mentre l'Indipendenza avrebbe fatto Re i titolari di quella identità, cioè di quel passaporto. L'arbitrarietà delle appartenenze è ancora una volta illuminata dal caso sovietico: nell'URSS in disfacimento, non si mobilitavano i gruppi etnici in astratto, ma i gruppi così come erano stati definiti dalle autorità sovietiche. Per quanto arbitrarie fossero le definizioni dei censimenti e i confini amministrativi, questi determinavano in gran parte l'ampiezza della mobilitazione etnica. Pietrificare i confini tra un ,gruppo e l'altro, stabilire in maniera biologica l'identità di un indi vi duo ricorda - a un certo numero di persone moderatamente razionali - regimi odiosi e le loro leggi. Sembra però ancora lontano il momento in cui a ognuno sarà concesso di scegliere la propria ombra, o di farne del tutto a meno. Note 1) E. Gellner, Nazioni e nazionalismo, 1985, p. 9. 2) Qualcuno forse ricorderà il caso di Giinther Wallraff, il giornalista tedesco che si travestì da turco e visse per due anni nella comunità turca in Germania, senza che alcuno - turco o tedesco - lo riconoscesse. Wallraff ha raccontato la sua esperienza in un libro edito in italiano da Pironti. 3) Altri casi sono la Germania nazista e il Sud Africa dell'apartheid. 4) Fu Stalin a teo'rizzare il legame tra etnia e territorio in Marxismo e questione nazionale, 1913: "Una nazione è una comunità di persone storicamente costituita, stabile, formata sulla base di una lingua, un territorio, di una vita economica comuni, e di una mentalità che si manifesta in una cultura comune". 5) Vedi V. Zaslavsky, L'eredità della politica etnica sovietica "Il Mulino", 1991, pp. 262-272 e T. Shanin, Ethnicity in the Soviet Union: Analytical Perceptions and Politica[ Strategies in "Comparative Studies in Society and History", 1989, pp. 409-424. 6) Il cartello di forze anti-comuniste riunite nel Comitato per la Salvezza Nazionale della Georgia, si è già sfaldato in precedenza, . nell'estate 1989. Nel l'ottobre 1989, la morte di Merab Kostava, leader molto stimato e forza morale del cartello, pose fine, per un breve periodo, ai dissidi. Attualmente, le forze che appoggiarono Gamsakhurdia nelle elezioni del 26 maggio 1991 - elezioni cui si presentarono cinque candidati - si scontrano con il Movimento del Congresso; che comprende il Partito Nazionale Democratico, il Partito Nazionale Indipendente e il movimento Mkhedrioni, un gruppo paramilitare che conta, secondo cifre ottimiste, circa 7 .000 uomini. Influenti leader del primo governo Gamsakhurdia - come Sigua (ex primo ministro), Khoshtaria (ex ministro Esteri) e Kitovani (ex comandante della Guardia Nazionale)-sono passati nelle file dell'opposizione già nell'agosto '91. ILCONTESTO Fattori culturali • • e cooperazioneeconom1ea. IncontroconArtha Dasgupta a cura di Federico Varese I mutamenti nell'Est Europeo hanno allontanato dalle prime pagine dei giornali le notizie sui paesi più poveri del globo. Senzadubbio nell'ex Est Europeo si è avuto il più spettacolare terremoto politico di questo secolo, un terremoto che investe non solo gli assetti statuali e la vita di milionidi persone, ma anche lecategorie interpretative, il mododi pensare e analizzare alcuni fenomeni politici e sociali. Eppure la più generale rivisitazionedelle griglie concettuali usate per quei paesi chiama in causa anche i concetti utilizzati per la comprensione del "TerzoMondo". Questi ultimi-al pari dei principi che hannoguidato gli aiutioccidentali inAsia, Africa e America Latina - non hanno forse bisogno di essere rivisti? Abbiamo avuto qualche mese fa una conversazione su questi temi con Artha Dasgupta, economista indiano che ha studiato ed insegnato per diversi anni a Cambridge e che ora si è trasferito a Stanford.Dasgupta è un esperto di economia dello sviluppo e si è interessato di programmazione in condizioni di incertezza, di distribuzione dei beni e di decentramento delledecisioni economiche, spintoda una forte preoccupazioneper i diritti di libertà e per la sorte dei "più poveri tra i poveri". In italiano, si può leggere un suo saggio nel volume curato da Diego Gambetta, Le strategie dellafiducia, Einaudi, 1990, mentre è annunciata la pubblicazione presso il Mulino di una raccolta di scritti. ·Professor Dasgupta, i concetti di Nord e Sud sono ancora utili per comprendere le relazioni economiche internazionali? A me pare che la distinzione Nord-Sud, ed in particolare l'idea che esista un Sud omogeneo, sia sempre stata una idea sbagliata. Non credo che abbia mai avuto senso parlare del "Sud", oppure del "Terzo Mondo". Ammetto che la mia conoscenza è parziale, poiché ho studiato soprattutto il subcontinente indiano e l'Africa subsahariana, mentre non sono un èsperto dell'America Latina. Nondimeno, sento ormai da molti anni che il "Sud", il "Terzo Mondo", sono una costruzione artificiale. Quando questi concetti presero piede, vi era molto poco in comune tra i paesi-che dovevano descrivere, eccetto per un fatto: il loro generale stato ~i povertà. Erano diversi per religione, background etnico, valori culturali. La loro capacità di erogare ed amministrare servizi variava in modo enorme da paese a paese. Quello che il governo era ed è in grado di fare, poniamo, in India è alquanto diverso da quello che è in grado di distribuire in Belize, in Cina, in Sri Lanka, o in Brasile. In termini politici, questi paesi avevano ben poco in comune, anche se in maggioranza erano governati da dittature militari e i diritti civili e politici vigevano molto di rado. Quindi è difficile sapere perch~ 'le persone - ed anche gli economisti - pensassero in termini di "Sud" o di "Terzo Mondo" come entità omogenee. Lei stesso ci ha ricordato che essi erano accomunati da una generale condizione di povertà. Sì, quella era l'unica cosa che li accomunava. Ma le loro capacità di uscire dalla povertà erano alquanto diverse, come ora sappiamo. La Cina ha raggiunto risultati impressionanti e in modi piuttosto interessanti, al pari di paesi come lo Sri Lanka, ma la performance dell'area del Subsahara è stata alquanto differente da quella del Sud del!' Asia. Credo che il concetto di "Sud" non sia utile, e non credo lo sia mai stato. Cosa pensa invece del concetto speculare, quello di "Nord"? I paesi che di solito noi pensiamo essere il "Nord", per una ampia varietà di ragioni storiche, hanno una maggiore omogeneità culturale, una comunanza di valori. Ad esempio, pensi al Mercato Comune: vi sono stati paesi disposti ad entrarvi e, soprattutto, a conformarsi aJle sue regole. Io non vedo la possibilità nel prossimo futuro di accordi simili nel cosiddetto "Sud", poiché quegli Stati 7.
IL CONTESTO Foto di Werner Bischof (da: Werner Bischof, Centre Na!ional de la Photographie, Parigi 1986 ) sono per lo più in fortissima competizione militare l'uno con l'altro. Non so se il "Nord" sia un concetto utile, ma può avere un certo senso, mentre il "Terzo Mondo" è qualcosa che io non riesco a cogliere. Cosapensa dellapossibilità di avere unnuovo ordine economico internazionale? Sono molto pessimista.Una ragione importante dell'arretratezza e povertà di questi paesi risiede nella debolezza e fragilità della società civi-le.Il potere politico, burocratico e militare può cadere, da un momento ali' altro, preda di gruppi particolari, di clan. Questa incertezza ha enormi conseguenze sullo sviluppo economico e sulla sopravvivenza di molti uomini e donne. Quindi, l'idea che si possa avere un nuovo ordine economico internazionale, in grado di raccogliere l'intero "Terzo Mondo", non significa nulla per me. Posso immaginare, con una certa dose di buona volontà, che un gruppo di paesi, ad esempio nel Sud Est asiatico, raggiungano qualche accordo commerciale multilaterale, ma è molto difficile prevedere accordi e cooperazione nel Subsahara. Nel subcontinent~ indiano, l'India e il Pakistan sono costantemente ai ferri corti. "E improbabile assistere nel subcontinente, nel quale vive un miliardo di persone, ad una qualche forma di cooperazione economica. A me paiono realistici gli approcci di tipo piecemeal e non globali. Se un paese comincia adessere relativamente stabile e ragionevolmente democratico ed ha una qualche capacità distributiva, allora posso immaginare che esso sia in una posizione per negoziare accordi bilaterali con più partner, eppure continuo ad essere convinto che il mondo sia piuttosto caotico! Fino a che punto le politiche restrittive verso le importazioni dai paesi poveri messe in atto dalla CEE e dagli USA e, più in a generale, i meccanismi del commercio internazionale sono responsabili del crescente divario tra paesi ricchi e poveri? Non c'è dubbio che le politiche restrittive della Comunità Europea e degli Stati Uniti nei confronti delle importazioni dai paesi del "Terzo Mondo" non hanno giovato. Si sarebbe dovuto abbandonarle molti anni fa. Allo stesso tempo, trovo molto difficile credere che la mancanza di sviluppo sia dovuta a manovre nel mercato iHternazionale, poiché il commercio internazionale per la maggior parte di questi paesi è una proporzione relativamente piccola del loro PIL. Le distorsioni create dall"'Occidente", se vogliamo metterla così, non porterebbero molto lontano nello spiegare la cattiva riuscit_aeconomica di molti paesi. Quali sono dunque a suo parere le cause del mancato sviluppo? Credo che nei cinquanta o sessanta paesi più poveri del mondo si sia fatto davvero poco per sviluppare i "bisogni di base": servizi sanitari ed istruzione primaria e secondaria, adesempio; quest'ultima è straordinariamente importante per lo sviluppo economico.· È impressionante come queste "merci" di vitale importanza per una società siano state negate. Vi sono alcune eccezioni, ovviamente, come lo Sri Lanka ed infatti anche i risultati sono differenti. Inoltre, la maggioranza di questi paesi ha imposto fortissimi controlli sui prezzi di produzione. In molti paesi - specialmente nell'Africa subsahariana - sono state create commissioni di controllo delle vendite che compravano prodotti agricoli a prezzi artificialmente bassi. In questo modo, i governi•hanno pregiudicato gli incentivi dei contadini e si è avuto negli ultimi vent'anni un declino in termini assoluti della produzione agricola. Penso soprattutto a circa quindici, sedici paesi del!' Africa di cui mi sono occupato. Restrizioni artificiali di questo tipo hanno effetti molto negativi sulla produzione nel lungo periodo. La vera ingiustizia risiede nel fatto che governi non democratici impongono le loro politiche a cittadini che non possono dissentire in forme pacifiche.
I sussidi occidentali aiutano davvero i paesi poveri? Non è facile rispondere. È possibile fare esempi in cui i sussidi occidentali sono stati molto utili per progetti specifici e ovviamente vi sono moltissimi esempi in cui sono stati sostanzialmente espropriati dai governi. È chiaro che sussidi ben mirati verso un paese in grado di riceverli, senza troppa dispersione dei fondi, sono un fatto positivo. La condanna aprioristica del Foreign Aid è ovviamente errata.D'altra parte non mi pare una soluzione di lungo periodo. Sulla base di quarant'anni di esperienza, sappiamo che i paesi africani e asiatici che sono cresciuti non lo devono agli aiuti. Poniamo però che vi sia un paese che abbia un enorme problema di debito, un governo che sia disposto ad assorbire il sussidio e a fare qualcosa con esso: come si può sostenere che l'aiuto sia dannoso? Il grande dilemma, almeno per chi è interessato a questioni di libertà, è questo: è giusto aiutare un regime che aumenterebbe ancora di più la sua forza coercitiva? È un dilemma tipicamente impossibile. Una risposta furono le famose conditionalities, lé clausole preventive. Sì. Dieci anni fa, le clausole ,erano considerate uno strumento indegno, poiché servivano ad imporre i propri valori ad un altro paese, anche se le clausole potrebbero far riferimento alla finalizzazione del progetto e non al più generale assetto del paese. Negli anni Settanta, ciò sembrava un modo di interferire negli affari interni di un altro paese e gli Stati Uniti in America Latina hanno usato le clausole in questo senso. Esse possono dare linfa a regimi che fanno cose orribili. D'altra parte, l'idea generale di clausole favorevoli a paesi che preferiscono rispettare i diritti civili e politici non mi sembra un'idea assurda. Potrebbe specificare meglio i criteri che seguirebbe?. · Non vorrei essere frainteso. Mi sono riferito sinora ad aiuti per lo sviluppo economico e non a tutti quegli aiuti indirizzati, ad esempio, ad alleviare le conseguenze di una carestia. Naturalmente non ha nessun senso parlare di clausole in questi casi. Non credo affatto che la Banca Mondiale o il Fondo Monetario Internazionale dovrebbero dare fondi in base a valutazioni politiche. Sto ora parlando soprattutto dell'aiuto nazionale, che va da un paese all'altro. Veniamo ai criteri. Credo ci si debba chiedere, quando si decide un credito: quale sarà l'effetto, magari non immediato, sul 20% dei più poveri di quella società? Il destino dei più poveri tra i poveri deve essere il nostro criterio di valutazione. Questo è certamente un buon indice grezzo in base a cui valutare le politiche. Si parla molto di integrazione economica: cosa ne pensa? Sono certo di sembrarle pessimista. Ma trovo molto difficile pensare, in un'accezione profonda, a 1) il Terzo Mondo; 2) gli aiuti; 3) il ruolo dell'integrazione, poiché non vedo crescere nessuna integrazione economica tra i paesi poveri, a causa degli odi reciproci che li dividono, come non credo che nascerà un nuovo ordine economico internazionale che comprenda il ''Terzo Mondo". Vi sarà una maggiore interdipendenza, ma essa sarà soprattutto tra le democrazie occidentali e i paesi dell'Europa dell'Est. Questa interdipendenza toccherà sempre più il Giappone, forse molto presto la Corea del Sud e Taiwan. Per usare le categorie di prima, l'interdipendenza sarà tra il Primo e il Secondo Mondo; ben poco di tutto ciò riguarderà il mio paese e l'Africa. Dunque i fattori culturali sono importanti anche per la cooperazione economica? Certo. È molto difficile sedere allo stesso tavolo per negoziare politiche commerciali con una persona che odi. L'idea che l'individuo possa essere multidimensionale e che ognuna di queste dimensioni sia in grado di operare indipendentemente dall'altra, è un concetto non molto diffuso. La tolleranza sarebbe molto utile anche per l'economia. IL CONTESTO Suun saggio di EdwardSaid. Noi e loro Francesco Ciafaloni Bisogna stare attenti alle etichette. Non si può fare a meno di usarle: le si usa senza pensarci: possono combinare grossi guai se si sbaglia etichetta o ci si scorda che si tratta di etichette. Si dice islam, o ebraismo, o cristianesimo ..Li si può usare come termini fattuali: nomi di forme, spesso difficilmente sep;crrabilitra loro, della religione nel Mediterraneo ed in un'area molto più vasta in cui le tre religioni si sono estese nei secoli. Anzi, li si può usare in più di un senso attuale, intendendo, per esempio, i testi sacri, o il complesso delle norme consolidate, o il complesso dei riti, delle pratiche diverse, effettivamente in uso in qualche parte del mondo. Li si può usare però anche in senso ideologico, trasformarle in entità sostanziali, biologiche, razziali. · Può allora accadere, come è accaduto dopo la fine della guerra del Golfo, di trovarsi davanti ad un articolo di giornale che commenta la sconfitta dell'Iraq intitolato La sconfitta dell'Islam. L'islam diventa l'elemento mblematico, sostanziale, caratterizzante di intere aree geografiche, il cementoignotoetemibiledi un'entità p_oliticapercepita come pericolosa, una identità sostanziale. Un fenomeno analogo avviene, è massicciamente avvenuto, con il termine "Oriente" in quanto contrapposto ad "Occidente", che da un'area geografica è passato ad indicare il complesso multiforme ed irriducibile ad unità delle culture non europee, e cioè non industriali, non scientifiche, e perciò religiose, subalterne, irrazionali, sensuali, decadenti. Orientalismo di Edward Said ( trad. it. di Stefano Galli, Bollati Boringhieri, Torino 1991) affronta lo stereotipo dell'oriente e il fenomeno dell'orientalismo nella forma più ampia e globaie, sostenendo la tesi che lo stereotipo dell'oriente e )'esistenza dell'orientalismo sono profondamente legati al dominio che gli stati dell'occidente hanno esercitato o cercato di esercitare su tutti gli orienti e sono un elemento essenziale della formazione della identità stessa dell'occidente. L'oriente è l'altro, passivo e incapace di percepirsi autonomamente, indispensabile alla definizione di noi stessi, che siamo il loro contrario. . Dall'introduzione, che si apre con due citazioni, di Marx e Disraeli ("Non possono rappresentare se stessi: devono essere rappresentati" e "L'Est è una carriera"), alla conclusione il libro è una serrata requisitoria condotta su testi letterari, storici, politici per dimostrare la globalità dell'orientalismo, la sua discendenza diretta dal fine di dominare e governare, il suo facile uso di una tradizione plurisecolare di coritrapposizione all'oriente, la sua pervasività. Il quadro tecnico usàto è quello foucaultiano di L'archeologia del sapere e Sorvegliare e punire . Disegno di Gunter Grass. 9
IL CONTESTO Quasi nessun autore si sottrae alla inclusione in questo schema interpretativo. Le eccezioni sono pochissime. Ci si può sottrarre allo schema dell'orientalismo solo con una-scelta politica esplicita, se ci si identifica alìneno parzialmente con l'altro. Escono dall'orientalismo J acques Berque, Maxime Rodinson e pochi altri. Dello stesso Massignon, che Said ammira molto, e di cui vengono citati con approvazione ampi brani, alla fine si riconosce la incapacità ad uscire da uno stereotipo così generale e inglobante da non consentire via di scampo. È stato giustamente fatto notare che non si capisce da dove discenda la possibilità per i pochi salvati di salvarsi. Said è un critico letterario, un umanista e ha scritto, a metà degli anni Settanta, in California. Già all'epoca della pubblicazione in inglese il libro suscitò reazioni contrastanti. Da un lato fu accolto con grande favore da una parte della sinistra, non solo quella dichiaratamente foucaultiana, che vedeva in questa puntigliosa requisitoria un contributo al disvelamento dei mali dell'eurocentrismo, dell'imperialismo economico e culturale. Tra gli autori ringraziati, oltre a Janet e Ibrahim Abu-Lughod, cui il libro è dedicato, figurano Noam Chomsky · e Roger Owen. li volume è stato citato emblematicamente come la resa dei conti definitiva con il disprezzo consapevole o inconsapevole con cui gli europei colti hanno trattato i non europei. Dall'altro non mancarono polemiche e stroncature. Una particolarmente severa, dotta, difficile da accantonare o da ribattere fé scritta per la "New York Review ofBooks" da Bernard Lewis. Il fatto che Lewis sia lui stesso un grande orientalista, citato più di una diecina di volte nel testo e bersaglio diretto di polemica, non toglieva nulla al peso della critica, che risultava forte soprattutto su due p.unti: la intollerabilità della esclusione dello studio di una cultura e di una lingua da parte di chi non sia nato in quella cultura e non parli quella lingua come lingua materna; la insostenibilità della tesi della debòlezza perdurante della cultura dei vari orienti, cioè della inconfrontabilità tra la quantità e il peso degli studi condotti dagli arabi sugli arabi in arabo o dai cinesi sui cinesi Ìn cinese e quelli condotti da europei sui vari orienti. Per il profano era ed è difficile seguire o giudicare gli elenchi di studi e di riviste di Lewis. Ma anche il profano si rende conto, con disappunto per la verità, se non s 4 l'arabo, che le sterminate bibliografie di cui sono corredati gli studi seri sul Medio Oriente o sul Nordafrica sono non solo di autori col nome arabo e di chi sa quale religione o confessione (Said stesso è di origine cristiana) ma in arabo. La stroncatura di Lewis, tradotta su "La rivista dei libri", ha accompagnato la traduzione del volume e dovrebbe costituirne, diciamo così, il naturale complemento. Speriamo solo che non scoraggi la lettura 'perché, anche se non si aècetta, come credo che non si possa accettare, la tesi forte del libro della esistenza di un orientalismo che regge compatto e coerente, dai tempi di Dante a quelli degli ebrei tedeschi, a quelli di Lewis, ci sono osservazioni e citazioni che sarebbe molto opportuno leggere e ricordare. Il punto debole del libro è proprio la grande ambiguità e vastità del termine orientalismo, che include quasi tutto. In particolare include l'orientalistica, cioè lo studio filologico, scientifico, delle fonti scritte in lingue orientali. Questo è programmatico nell'autore, che giustamente sottolinea l'assurda vastità del termine, che include due terzi del mondo e lingue diversissime tra lorò come l'arabo, il turco e il cinese. Ma, una vòlta criticato il ~ermine, e ammessa l'origine imperiale di esso, e magari disaggregato il campo, come ovviamente tutti gli studiosi hanno fatto in pratica, resta il fatto che quello dello studio delle fonti resta l'unico modo per uscire dalle idee ricevute, dagli stereotipi. In Italia c'è troppo poca orientalistica, rispetto all'Inghilterra, alla Francia, alla Germania, malgrado il valore deÌ Caetani e dei Baussani (non sufficientemente colpevoli da comparire nell'elenco degli autori citati, magari per il banale motivo che hanno scritto soprattutto in italiano), e perciò c'è più orientalismo sulla stampa e nei commenti quotidiani. E l'oriente si è svegliato: Se si consultano traduzioni recenti di un classico importante, per esempio Al Farabi, logico e filologo della politica, si scopre che i comitati scientifici sono composti sì di nomi ebrei tedeschi (Walzer, Zimmerman, Rosenthal, nel caso citato) ma la genealogia-dei testi include soprattutto codici che stanno presso biblioteche persiane, siriane, egiziane, dove vengono trattati proprio come codici, non come reliquie, mentre i ringraziamenti includono studiosi con i cognomi della più varia 10 origine. E del resto, lui stesso, Al Farabi, studiò forse Platone e Aristotele in siriaco, scrisse in arabo, ma, probabilmente, ci spiegano i suoi traduttori, di lingua madre era turkmeno. Se si lascia da parte il guscio foucaultiano, di cose interessanti per il lettore se ne trovano molte, in particolare le citazioni dei politici dell'età dell'imperialismo, Cromer, Balfour, Picot. Non siamo più abituati alla espressione diretta della superiorità assoluta, alla manifestazione esplicita della convinzione della irrazionalità, della disumanità, in questo senso non secondario, degli altri ed è un esercizio salutare richiamare alla memoria i giudizi di coloro che hanno governato il Medio Oriente e il Nordafrica. Non è importante che questa non sia tutta la verità. Sono esistiti autori, anche di destra, come James Fitzjames Stephen, lo zio di Virginia Woolf, che in Liberty, equality,fraternity hanno sostenuto che gli inglesi avevano il diritto di governare l'India perché erano una razza guerriera che aveva sconfitto gli indiani in battaglia, ma che perciò dovevano dare gli esami separati nei concorsi per la pubblica amministrazione, altrimenti i bengalesi che erano molto pronti di testa e avevano imparato un ottimo inglese avrebbero sempre scavalcato i non particolarmente brillanti funzionari britannici disposti a scegliere, secondo la frase di Disraeli citata all'inizio, l'Est come carriera. Questo è molto imperiale, molto antiegualitario, è anche un po' fascista, ma non rientra nello schema dell'orientalismo. C'erano però quelli che erano convinti che la ragione appartiene solo all'occidente, e bisogna ricordarli. Tutt'al più bisogna fare delle letture di completamento perché esistono gli equivalenti italiani dei Balfour e Said, per ovvi motivi di lingua e di minore importanza, non li cita. Altrettanto interessànti, e le più dettagliate, sono le citazioni e le interpretazioni che rientrano più specificamente nella competenza professionale di Said, quelle degli scrittori: Nerval, Chateubriand, Flaubert. Più problematiche, ma ugualmente interessanti, quelle di autori che si sono occupati specificamente di nazioni e nazionalismi, come Renan, giustamente molto citato, che, malgrado la sua grande apertura sull'autodeterminazione dei popoli e dei confini delle nazioni (facciamoli votare, "sopportiamo lo sdegno dei forti") aveva qualche dissimetria. Di estremo interesse, proprio perché complessa e contraddittoria, la parte dedicata a Massignon, di cui già si è detto. Singolarmente prive di spessore sono invece le osservazioni e le citazioni che riguardano i secoli · precedenti la rivoluzione industriale e l'imperialismo europeo. Tralasciando la parte storica, anche per incompetenza, vorrei dedicare un po' di spazio a riscattare dall'accusa di orientalismo un autore che orientalista non era, George Orwell. L'esempio può servire a mostrare un caso tra gli altri di deformazione unilaterale del testo per sostenere la tesi. Scrive Said: "Gli abitanti delle colonie, come quelli che George Orwell vide nel 1939 a Marrakesh, andavano considerati niente altro che una specie di emanazione continentale, africana, asiatica, orientale: 'Quando percorrete a piedi una città come questa - duecentomila abitanti, ventimila dei quali non possiedono assolutamente nulla fuorché gli stracci in cui sono avvolti - quando vedete come vivono gli abitanti e, soprattutto, la facilità con cui muoiono, faticate a convincervi di stare camminando in mezzo ad altri esseri umani. I volti sono bruni, e poi quanto sono numerosi! Davvero sono fatti anch'essi di carne, come voi? Hanno forse dei nomi? O si tratta semplicemente di una materia scura, indifferenziata, non più individuali di quanto lo siano le api o i coralli? Sorgono dalla terra, s'affannano e patiscono la fame per qualche anno, infine sprofondano nei tumuli senza nome dei cimiteri e nessuno nota che se ne sono andati: i tumuli stessi tornano presto a confondersi col terreno circostante., ... il non europeo che gli europei conoscono corrisponde alla citata descrizione di Orwell. È motivo di curiosità e divertimento, oppure atomo di una iridifferenziata comunità cui si fa riferimento, sia nel discorso colto che in quello comune con termini generali come 'orientale', 'africano', 'giallo', 'bruno', 'mll6ulmano' ." Sì: ma Orwell hà anche scritto: "Dopo essere rimasto cinque anni nella polizia dell'India, odiavo l'imperialismo che stavo servendo con un'intensità di cui probabilmente non riesco a dare l'idea." (Tra sdegno e passione, p. 8) E, nello stesso periodo: "Chi ha il coraggio di essere sincero dovrà ammettere che i mongoli, nel loro complesso, hanno corpi assai più belli dei bianchi. Paragonate la pelle serica dei birmani, che non si sgrana, non si corruga se non dopo i quarant'anni, e poi semplicemente appassisce
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