Linea d'ombra - anno X - n. 67 - gennaio 1992

Mi salì dal basso un senso di ribrezzo acido, e mi coprii di sudore. Mia madre si stava trasformando. La guardavo abbandonata sulla poltrona, era un ammasso di carne livida, ancora più floscia e slombata dei cuscini che le avevo messo per sorreggerla. Sul collo la pelle le si squagliava in tanti e progressivi ripiegamenti, sempre più molli e obesi, fino a cedere sotto il peso del grande testone bianco, che sembrava dovesse sprofondare da un momento all'altro, e sfondare tutto. Allora mi inginocchiai davanti a lei, le baciai le ginocchia e le sussurrai: "Tu vorresti raggiungere papà, vero? È per questo che · ti stai lasciando andare e non reagisci più. Ma dài retta a me, non ti conviene. La sai una cosa? Se tu 1 morissi adesso, così come stai, papà non ti vorrebbe. Gli faresti schifo, cara mamma. Lui ti ricorda bella, sorridente, elegante. E invece guarda come sei ridotta: non hai più forme, sei un tocco di carne ammassata, e basta". La portai davanti allo specchio: "Guàrdati, respiri con tutto il corpo. Ti contrai a ogni boccata e poi ti rilassi, gonfiandoti e poi disseccandoti come una medusa moribonda arenata sulla spiaggia. Chi ti vorrebbe, così ridotta? Solo io, mamma, solo io, ormai, posso volerti bene." Un giorno, proprio quando cominciavo a credere che le cure cominciassero a dare i loro effetti, mia madre non riuscì a trattenere i suoi bisogni. Diventai una furia. La sollevai di peso, la portai in carnera sua e la chiusi dentro. Poi le urlai da dietro la porta: "Ti va bene così? Accetti anche questo? Ti accontento! Dovrai essere tu, adesso, a dare qualche segno di vita, di rabbia, se vuoi uscire da lì, se non vuoi diventare un ammasso brulicante di piattole e di cimici! Vediamo chi di noi due riesce a spuntarla. forse quando farai ribrezzo anche a te stessa, ti deciderai a uscire dalla tua apatia!". Rimase tutta la notte chiusa nella sua camera, così sporca e maleodorante com'era. Quando la mattina Letizia, l'infermiera, aprì la camera, un gran tanfo si sparse per tutta la casa. Ma mia madre era ferma, immobile, come l'avevo lasciata la sera prima. Solo, a vedere Letizia, una richiesta accorata di aiuto le si impresse nello sguardo, e una lacrima le scese sulla guancia. Mentre l'infermiera l'accudiva, consolandola .,e sorridendole, mamma, immersa nel suo gonfiore paralitico, le carezzava i capelli per ringraziarla, quasi volesse consolarla a sua volta per quell'ingrato compito. lo, in piedi, appoggiata alla porta, la osservavo. Conoscevo quella mano e il filtro stregato che era capace di impastare con le sue carezze soffocanti e tiranniche. Capii così che da quel momento non avrei potuto più contare n_eanchesu Letizia._Dovevo fare tutto da sola, decidere tutto io. E quel giorno stesso la licenziai. Una sera, dopo mangiato, stavo sfogliando il quotidiano. Negli ultimi tempi, non si era verificato alcun fatto sgradevole. Avevo sistemato mia madre, come al solito, sulla poltrona. La sigaretta del dopocena tra le dita, sfogliavo un rivista e ascoltavo un po' di musica. Avevo radunato i piatti sporchi e le posate sul STORIE/ONOFRI carrello, ripromettendomi di sistemare tutto più tardi, dopo il relax. Mi sembrava che anche lei stesse, come me, godendosi la pace di quell'ora, mentre la campagna fuori ammutoliva sotto il freddo dell'inverno. Non pensavo a niente, mi abbandonavo solo ai rumori soffiati da una pace piena, riempita dalla solita, familiare, dolciastra, stirata noia. Ma mentre io godevo quell'ora di tranquillità, lei stava decidendo il colpo a sorpresa. Approfittando della mia distrazione, allungò una mano sul carrello, si impadronì della forchetta, se la appoggiò sul polso e, spingendola con accanimento, lasciò che la sua vita e tutte le mie fatiche le si sciogliessero addosso. Era stata colpa mia a non prevedere quell'attentato studiato con perizia. Ma non avevo ancora capito del tutto la sua psicologia. La previsione è il massimo del dominio, e io non ero ancora divenuta la sua padrona. Così lo spavento si unì alla stizza. "Non mi fa male ciò che hai fatto" le gridai, mentre lei già ansimava. "Mi addolora l'ostinatezza rabbiosa con cui ti accanisci a volere far soffrire me! Hai usato, per darti la morte, le forze che io ti ho ridato, e le energie che io sono riuscita a restituirti, girando come una pazza per tutti i migliori medici d'Italia!" Le legai i polsi con due spaghi, stringendoli più che potevo, e chiamai il 113. All'ospedale la medicarono e dopo pochi giorni di degenza me la restituirono. Da quel momento, però, non ebbi più pace. Ogni mattina, tornando dalla spesa 0. da una di quelle poche passeggiate in campagna che mi concedo, mi prendeva la paura che avesse tentato di nuovo. La vedevo già morta, con la testa fracassata, o i polsi tagliati con un fondo di bottiglia, o le vene strappate a morsi. Mi faceva paura, non dormivo più. Era mamma stessa che non mi permetteva di stare tranquilla. Col tempo la sua rabbia andava facendosi sempre più accesa. Rifiutava le cure, si dimenava, impediva che le venissero somministrate le medicine necessarie. E qualche settimana più tardi, in uno scatto d'ira, con un'energia che non so da dove prese, dimenò talmente forte il braccio che l'ago della fleboclisi si piegò e si spezzò, restando nella vena. E di nuovo dovetti portarla all'ospedale. Ormai era guerra aperta tra me e la sua mente malata, e allora presi la decisione. Al ritorno dalla degenza l'ho legata. Le ho stretto per bene i polsi ai braccioli della poltrona, e le ho unito con un laccio le caviglie. Ecco, mamma, le ho detto. Adesso sì che posso stare tranquilla. Adesso sarai viva, ne.sono sicura. Guarda che bella primavera sta arrivando, e non ci sono dubbi, adesso, che ce la godremo insieme. Quando ero piccola, se restavo colpita da una di quelle innocenti e terribil_idelusioni che hanno i bambini, tu mi rincuoravi prospettandomi un futuro felice, gioioso, spensierato. Io ci credevo e, rincuorata, mi calmavo. Ora quel futuro è arrivato, mamma, e tu non puoi fuggire. Te la devi vivere con me, fino in fondo, quella vita che mi hai prospettato. E alzando gli occhi, vidi che lei, col volto solcato da una bianca stanchezza, finalmente arrendevole, faceva cenno di sì con la testa. 73

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