I CONFRONTI I Un mondo e il tempo Le 11 aritmie" di Attilio Bertolucci Domenico Scarpa Foto di Giovanni Giovonnelli. C'è da pensare che, negli ultimi cento anni, ci abbiano detto più cose sull'uomo, sul mondo, sulla storia, quegli scrittori la cui opera si snoda sotto il segno di lievi malesseri, dei piccoli dolori, piuttosto che gli scrittori la cui anima è stretta negli artigli di una qualsiasi "malattia mortale". Il '900 si apre con il parlottio dei personaggi di Cechov, tutti nevrastenici in continua compiaciuta discettazione sulla loro stessa nevrastenia. Le angosce di Kafka, e poi di Umberto Saba, a leggerne gli scritti autobiografici, i diari, gli epistolari, si colorano di una luce quotidiana più che cosmica, una luce di conoscenza del mondo palmo a palmo e insieme nella sua totalità. E la definizione più azzeccata della nostra epoca l'ha data W.H. Auden: The Age of Anxiety, l'età dell'ansia. È in questo scaffale di una finta mediocrità del soffrire che va ad allinearsi il primo libro di saggi (pubblicato a ottant'anni!) di Attilio Bertolucci, intitolato Aritmie (Garzanti, pp. 277, L. 36.000), con riferimento a un privato disturbo cardiaco che diviene Strumento di conoscenza e di comunicazione: come ci spiega Poetica dell'extrasistole, il capitolo d'apertura, sei paginette di densa divagazione apparse nel '51 su "Paragone". Bertolucci è stato per decenni, con poche - e tutte illustri-:-- 28 eccezioni, un poeta di cui si parlava al diminutivo: "un tenorino", "una fantasiuccia". Pochi pensavano a intervistarlo, a chiedergli opinioni sul suo mèstiere di poeta o su come andasse il mondo; solo nell'Autodizionario di Felice Piemontese, recentissimo, troviamo una paginetta che ci sarebbe stata benissimo, come envoi, al termine di Aritmie. Negli ultimi anni invece Bertolucci ha corso il rischio opposto: essere accreditato di "una grande forza tranquilla", di un profilo tiepido e medio che fa sì che quando esca un libro lo si recensisca eppoi non ci si pensi più. La questione è molto più semplice: Bertolucci è tra i grandi poeti di questo ricchissimo, appagante Novecento lettetario; e, con Penna, colui che meno assomiglia a tutti gli altri, colui che ha trovato - e scelto - i maestri più insoliti perii panorama nazionale: ed è stato ovviamente, e per sua fortuna, tra i meno imitati. La storia di come la sua grandezza è stata via via, negli ultimi vent'anni, riconosciuta, è parallela a quella del suo amico Giorgio Caproni. Berto lucci disse una volta, in un'intervista, che aveva preferito non diventare "il primo poeta di Parma". Ma il non voler essere un provinciale lo ha condotto, oggi che tutto il mondo è provincia perché non esistono più le capitali culturali di un tempo, ad essere poeta della provincia. Se il suo amico Rufus, attore nero del Living Theatre, può capire senza riserve Giuseppe Verdi, perché allora dovrebbe essere provinciale il mormorio padano di Berto lucci? La riflessione sembra suggerircela, con candida malizia, Bertolucci stesso nel suo articolo verdiano: nel libro viene subito dopo Poetica dell'extrasistole e non per caso, ché la biografia di Verdi è autobiografia di Bertolucci, tanto è vero che vi sono intarsiati i nomi di Walt Whitman, di Baudelaire, di Hardy, Stendhal, Dickens: di molti, insomma, dei maestri insoliti cui accennavo sopra. Ma ecco alcuni ritagli da questo "saggista": "In quegli anni si divorava Luce d'agosto di Faulkner che comincia come Oh Susanna: Vengo dal!' Alabama ..." Oppure: "Santa Giovanna di Shaw, un'opera che ammiro, ma così invernale. Da gl'.lstarsi, ironia e commozione miste come alcool e zucchero in beveraggio bollente del Nord, in piena stagione teatrale, poco prima o poco dopo le feste". O infine, sui romanzi anni Venti di Luciano Zuccoli: "È la luce dei pittori mondani dell'epoca, voluta sin che volete, ma così pateticamente evocativa, irresistibile". I saggi- conversazione di Proust, la fumisteria anglosassone: Bertolucci si trova d'accordo · con Eliot e Joyce, music-hall e poesia possono e devono essere mescolati. E seppure è lui stesso ad avanzare un sospetto di gratuità, di dandysmo divagatorio sulle sue prose (le sue pose?) è per parlarci poi subito della morte del teatro di parola, dei "maggi" contadini e di tutta la civiltà che li sostentava. Più avanti, ci restituisce l'energica bellezza dell'Ungaretti orale. Mentre ecco Gadda: "questo gran borghese lombardo in grisaglia che non si noterebbe in via Durini o in via Senato e fa macchia invece nel disordine di largo Argentina", "un Dickens che possegga l'estro di uno Sterne". Stupendi i ritratti di Mario Soldati all'ufficio postale e di Vincenzo Cardarelli (non nominato) al cinema. Belle e indimenticabili nella loro calma straziata le due paginette su Elsa Morante: "Ah, ah, barbaro esilio! Dal cuore di Attilio - bandito son io!", arietta mozartiana di rimprovero al poeta per un suo ritardato giudizio su L'isola di Arturo. Lo scintillio di queste frasi rende impossibile leggere Aritmie
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