Linea d'ombra - anno X - n. 67 - gennaio 1992

CONFRONTI Virgilio e .Lacan: altri due estremi, fra altri innumerevoli, coltivati da Zanzotto e che si è tentati di adoperare per coniare rapide definizioni. Lo sfondo è comunque sempre (non solo nel poemetto da cui cito) Pieve di Soligo: le più diverse xenoglossie attraversano quel luogo e interferiscono col suo dialetto. Francese, latino, tedesco (quello di Hoelderlin, nume tutelare per Zanzotto), greco. Zanzotto non fa che grattare e rimescolare il suo terreno in cerca di nutrimento e in cerca di storia diventata geografia: tempo stratificato in suolo, storia depositata in stratigrafie linguistiche e stilistiche, psicolinguistica della poesia che mostra in verticale (da cui vertigini varie) l'ontogenesi dell'individuo-poeta. Questo campione della lirica, cultore del discontinuo e dell' intensità, le cui composizioni sono costituzionalmente minate da vuoti improvvisi di senso, colmati a malapena dalle iterazioni ossessive e ludiche, è sempre alla ricerca di un tessuto di relazioni: vita di relazione, comunità locale, comunicazione, logos che rimedi un po' ali' idioma, legame razionale che corregga e soccorra lo sprofondare (nevrotico e lirico insieme) nella peculiarità, nella· particolarità. · Anche nella raccolta più dissestata, più astratta e, credo, meno riuscita di Zanzotto, che è Fosfeni (titolo peraltro del tutto onesto e quasi auto-denigratorio del 1983: imprendibili particelle di luminosità inconsistente e blandamente patologica), anche in Fosfeni Zanzotto non dimentica la sua passione relazionale. Una nota dell'autore dice parecchio: "La presente raccolta( ...) Si profila qui come contrapposizione, o residualità, un nord che attraverso altri tipi di movimento collinare sfuma entro lo spazio dolomitico e le sue geometrie, verso nevi e astrazioni, attraverso nebbie, geli, gelatine, scarsa o nulla storia. Sotto il nome di logos va qui ogni forza insistente e benigna di raccordo, comunicazione, interlegame çhe attraversa la realtà le fantasie le parole, e tende anche a 'donarle', a metterle in rapporto con un fondamento(?)". Una certa forza dialettica (uso di.proposito questo termine ormai desueto e quasi incomprensibile: per alludere al progetto o sogno di una filosofia dell'integrità) agisce nella poesia di Zanzotto, e ancora di più nella sua poetica, proprio perché l'estremismo lirico, vissuto senza remore e con pieno dispiegamento di forze stilistiche, è anche visto dall'autore come coazione, effetto di un male: malattia, emorragia, minaccia distruttiva, La forma lirica, in Zanzotto, oltre che lode del mondo, è uno stato morboso dell'io prigioniero del suo specchio. E la sua lingua è pienezza originaria: "pienezza del parlare nascente e incoercibile come singolarissima fioritura". Ma è anche il suo opposto: "lingua privata, fatto privato e deprivante; eccesso di privatezza e quindi chiusura-privazionedeprivazione" (nota di Idioma, p. 113). Lirica e nevrosi sono due facce dello stesso stato. E il rischio è qualcosa di peggio della sofferenza nevrotica, che viene presupposta dall'atto lirico (coazione verso il sublime, l'alto, la purezza superlativa, il mondo siderale, la neve e il gelo). Il rischio maggiore è lo sprofondare nella particolarità, l'annegare nell'idioletto, la perdita del significato in quanto prodotto di una vita di relazione. Dico questo per ricordare due cose abbastanza ovvie per qualsiasi lettore che sia in grado di prendere Zanzotto anche alla lettera, ma non sempre chiare quando il lettore è uno di noi: un critico e uno studioso del linguaggio, con la tendenza a descrivere in modo involontariamente trionfalistico, come puro fenomeno o fantasmagoria, il linguaggio di Zanzotto. Come ho già detto, Zanzotto è capace di trasformare i suoi dolori e guai in trionfi del linguaggio (questo, a quanto p[ire, è un dono che riconosciamo ai poeti). E il suo linguaggio, che spesso sembra venire su da una specie di inferno psichico, si presenta poi, una volta solido, come un paradiso degli studiosi del linguaggio, che possono trovarci di tutto. Ma uno dei messaggi che Zanzotto ci manda è, se non sbaglio, che la poesia lirica non è solo un suono dolce di parole, è appunto una "droga fonica": in cui sono concentrati delizie e veleni, sostanze chimiche capaci di esaltare e minare le facoltà della mente attraverso i poteri del linguaggio. Con questa droga che è la lirica, e che il poeta è costretto a maneggiare, non si può giocare soltanto (cioè, giocare senza rischio). I libri di poesia di Zanzotto ci offrono ogni tanto scene raccapriccianti. Direi che nella sua esibizione•di materiali, residui, linguaggio informe, nel limbo del suo non essere ancora linguaggio, ci sia una forma di onestà, un avvertimento. Guardate che orrore, che squallore, che rovina! La minaccia è dovuta anche ai poteri nullificanti della lirica, soprattutto nella sua forma, alternativamente concentrata e dissipata che essa ha assunto con la modernità (Zanzotto viene dall'ermetismo e dal surrealismo, sa bene che l'illimitato potere orfico concesso alla parola tende a distruggere l'istituto linguistico, la norma comunicativa). ~ Disegno di Cork. Non vorrei ora attribuire a Zanzotto una attitudine di diagnostico poeticamente decisiva quanto la sua condizione di paziente: cioè di uomo che sembra patire su di sé, nel corpo, nella psiche e nel linguaggio gran parte delle patologie dell'epoca. Parlando di Leopardi sembrerebbe che Zanzotto tenda a privilegiare questo aspetto nella condizione del poeta: più malato che medico, più paziente, anche se lucido, che diagnostico. Ma d'altra parte Leopàrdi viene presentato come colui che non precipita in una condizione di ebbrezza del negativo. Resta sano in lui il tessuto razionale, la forza discorsiva. C'è in Leopardi, dice Zanzotto, una salute e ragione che resistono alla "disintegrazione interiore" e alla "rigida meccanicità nevrotica" (Fantasie di avvicinamento, p. 126) Certo il fare poesie, quel misterioso impulso a riempire foglietti a mano quasi bucando il foglio con la biro, si presenta nello stesso tempo (qui il poeta è del tutto petrarchesco) come male e rimedio del male. Ma ecco, se si dovessero stabilire il fronte delle opposizioni, si dovrebbe dire che il male, sempre più chiaramente con gli ultimi libri, è l'astrazione, la mancanza di luogo, il "nessun luogo" (Galateo in bosco, p. 16). Mentre il rimedio è in quella sempre più intensa e amorosa ricognizione dell'habitat che caratterizza la trilogia. Trovo fastidiosi e inutili (o segni di impotenza espressiva del poeta, che generano frustrazione nel lettore) tutti quei segnali, mappe, frecce, asticelle che rendono ancora più accidentato e eterogeneo il terreno delle pagine (non a caso in Galateo in bosco . la sezione "Ipersonetto" ne è priva: lì versi e strofe e rime non 25

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