CONFRONTI se, repliche, simultaneità, e che affannarsi a parafrasarlo di nuovo è per la critica un lavoro che dà quasi sempre magri frutti: ogni cellula zanzottiana, ogni suo testo o quasi, tende a riprodurre al completo l'organismo. Ogni poesia è un atto nel corso del quale all'urto di un'emergenza - "aiuto! soffoco, sparisco!" - segue una dislocazione nuova delle energie psico-linguistiche per la sopravvivenza.L'atto poetico, l'atto di scrittura deve contenere tutto il necessario per la "resistenza (...) a livello biologico", aiuta a procurarsi una "forma di salute", ecc. Riprendiamo la citazione interrotta in cui l'autore parla di sé in terza persona: "Ma sotto questo aspetto Z. si sente abbastanza scusato, nel senso che non ha mai 'mjrato' a qualche cosa che avesse dei contorni precisi, quando pensava dj riferirsi alla 'poesia': non poteva non pen~are verso 'là', perfino crudelmente, nell'ombra di un'impotenza. Eppure gioisce ricordando certi momenti molto lontani della primissima infanzia: provava qualche cosa di infinitamente dolce ascoltando cantilene, filastrocche, strofette (anche quelle tipo 'Corriere dei Piccoli') non in quanto cantate, ma in quanto pronunciate o anche semplicemente lette, in relazione ad ·un'armonia legata proprio al funzioné;lmento stesso del linguaggio, al suo canto interno. Continua ad avere una percezione estremamente viva e attuale di queste lontananze irt cui prese forma per lui una vaga, inafferrabile 'idea' o 'presenza di poesia'. La nonna paterna, alla quale egli deve una gratitudine tutta particolare, gli sottolineava il fatto che questi suoni della lingua non erano_canto nel senso più.comune della parola, erano appunto poesia. E la nonna, dotata di quella certa cultura tra popolare e classica che molto spesso si trovava in passato anche negli strati cosiddetti inferiori della popolazione, gli recitava le strofe di Torquato Tasso (è una tradizione tipicamente veneta: si deve ricordare che anche i gondolieri cantavano Tasso e Ariosto). Questa armonia del toscano illustre filtrava io lui come un vero e proprio sogno, una vera droga fonica, insieme a frammenti di altre lingue, vere xenoglossie, sopra il continuum un po' 'selvatico' della parlata dialettale'' (1990). Non saprei davvero che cosa aggiungere a queste rimemorazioni di Zanzotto. I lettori esperti di questo poeta sanno già a orecchio che da questa mezza pagina, con un po' di analisi del tipo "spremilimone", si può arrivare dritti al cuore dell'opera di questo autore. Solo qualche accenno, per tornare·a gustare il succo del brano. . Anzitutto, direi, la figura stupendamente centrale, quella della nonna. La lingua della poesia, che sa emettere canto senza cantare ma solo così, parlando, nella pura e semplice pronuncia, è, più che una lingua-madre, una lingua-nonna. Cioè una lingua doppiamente madre, il cui nutrimento non è alimentare ma simbolico, non somministra una dieta comunicativa o referenziale, ma espressiva, poetica. Inoltre la nonna qui, a quanto pare, è anche dotata di attitudini discretamente critiche e chiarisce che si tratta di musica di parole, musica che è nelle parole ("canto interno" è detto poco sopra) senza bisogno di musica aggiunta, esterna, extra-verbale. La sua cultura è "tra popolare e classica" (e siamo in piena lingua poetica zanzottiana: lirismo culto, voci dotte, e dialetto). E poi quella lingua poetica del prjmo poeta patentemente nevrotico della letteratura italiana, che è Tasso, si presenta come "una vera droga fonica" (quale altra migliore definizione del linguaggio lirico, concentratissima musica di parole con effetti speciali di "aumento della vitalità", leopardianamente) agli orecchi del poeta-bambino (e ancora: facile ricordare quel protagonistico "Egonepios" che compare nella sezione IX delle "Profezie o memorie o giornali murali", nella Beltà). 24 Offro un po' a caso questi scontati-pro-memoria solo per non incominciare a freddo un discorso su Zanzotto: che vorrebbe muoversi in una direzione particolare, quella del rapporto di una certa lingua poetica con un certo luogo. Perché, per quanto esperto nei più audaci procedimenti di scomposizione astrattizzante, secondo la tendenza del più accreditato estremismo lirico moderno (diventato già stile internazionale, se non gergo, quando Hugo Friedrich lo descriverà come una "struttura"), Zanzotto resta tuttavia un poeta che non lascia la sua provincia. Il presupposto di situazione psico-culturale della sua poesia, potrebbe perfino sbrigativamente essere definito: "nevrosi localistica" o, forse meglio, "pathos del luogo". Ma vorrei subito sottolineare che questa malattia o sofferenza del luogo determinato viene da un sentimento primario che non solo nelle sue prime poesie, ma anche in quelle più recenti (in Idioma, 1986, per esempio), si presenta nella sua forma positiva e in~egra,cioè come vero e proprio "amor loci". È insomma il problema delle radici, dell'habitat, dell' òikos. Casa e dimora. E intorno a questa un "Ambiente particolarmente congeniale ai propri gusti, aspirazioni e sim.", nonché in senso lato e proprio, "Complesso di fattori fisici e chimici che caratterizzano l'area e tipo di ambiente in cui vive una data specie di animale o di pianta", secondo la definizione del dizionario. In questo senso molto elementare e preciso, credo che la poesia di Zanzotto sia intensamente, forse prioritariamente, "topografica" e "ecologica". E questo soprattutto se si pensa che stiamo parlando di poesia lirica al più alto grado di purezza, e non di un altro genere letterario. Lirica nella quale l'io resta in primo piano, centrato o decentrato che si presenti, nel momento stesso in cui fa topografia, traccia mappe, descrive e evoca luoghi intorno a sé, nello spazio del suo orizzonte visibile e vivibile. E ragiona sul senso del proprio essere lì e non altrove, verifica e soppesa lo stato dei propri rapporti con la dimora, il luogo che lo ospita. Intellettuale cosmopolita e uomo comune provinciale ("essere uno coi tanti di qui" dice un verso di Idioma, nel componimento "Genti"), Zanzotto anche in questo tocca due estremi: non dico che li unisca, né che li concilii. Tutt'altro. Certamente ne sperimenta, per lacerazioni e vertigini, la distanza. Tutti ricordano i due bellissimi distici pseudo-alessandrini del poemetto "Pasqua a Pieve di Soligo" (in Pasque, 1973). Dopo un libro come La beltà, Pasque suonava un po' come il libro del ritorno a casa. La geografia lirica diventava di nuovo più chiara, e in forma più circostanziale, più politica, perfino, come in qualsiasi altro libro precedente. Quei distici dicevano: "Oui, l'après midi je lis Virgile puisqu'on m'avait appris le latin dans un vieux collège de ma regioil;" "oui, je lis SCILICET, la revue paraissant trois fois l'an à Paris, sous la direction du docteur J. Lacan;" Autoritratto gustosamente parodistico, senza per questo essere meno esatto e eloquente. Il provinciale resta nella sua Pieve di Soligo, ma parla, come intellettuale e letterato, il francese, la lingua del cosmopolitismo moderno, con il suo centro a Parigi (siamo un po' indietro negli anni: Parigi era ancora il centro del mondo culturale). Ogni pomeriggio, a casa sua, il poeta si siede a leggere il suo vecchio Virgilio, il c~assicodella religio italica della terra e dei campi, nel latino che ha imparato in un collegio religioso del Veneto. Però legge anche la rivista lacaniana d'avanguardia, si informa sulle ultime notizie della scienza psicanalitica: per tenere a bada le sue ansie di nevrotico, ma anche perché quella è diventata una scienza del linguaggio, buona per capire meglio che cosa succede quando un poeta scrive. ·
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