Linea d'ombra - anno X - n. 67 - gennaio 1992

IL CONTESTO Palcoscenico settentrionale Su una trasmissione televisiva Piergiorgio Giawhè "Profondo Nord" è una trasmissione che viaggia di città in città, anzi di teatro in teatro. Un teatro con dentro la gente di una città. E fin qui niente di nuovo. Sono frequenti le trasmissioni ordi-. narie e i collegamenti speciali che usano il teatro cittadino come una basilica laica, oltre che come spazio quasi attrezzato alla bisogna televisivo-spettacolare. Sono anche sempre più sfacciati gli abusi del teatro per rubargli quell'effetto vivo, di casualità e di relazionalità che va ben oltre il pubblico surgelato (soprattutto quando applaude) di quei giganteschi studi uno e due e tre dei varietà televisivi. Il Teatro rende meglio - e basta da solo - per dare l'idea della · Comunità: sembra sufficiente collocare una qualunque manifestazione in un teatro, perché vi restino su appiccicati i segni postumi e ambigui di una comunione che non esiste da tempo; che forse non è mai esistita e non si è mai pretesa, eppure, a vedere in tv la gente radunata in un teatro, quell'idea riaffiora e resta imbattibile. Sarà perché appunto in televisione si ottiene, del teatro, soltanto la sua immag_inee, come ci scriverebbe su Magritte, "questo non è un teatro". "E molto di più e di meglio!", può infatti sottoscrivere più di un presentatore televisivo che, sorridendo sotto i baffi e sopra la camicia, ha da tempo imparato come il teatro sia il primo trucco della diretta: si può andare in differita e si ha ugualmente la sensazione della contemporaneità e fisicità dell'evento. Ma a teatro valgono anche altri trucchi, a seconda del modo in cui si usa. "Profondo Nord" ad esempio adopera il teatro come sede di un'assemblea. Inquadrato globalmente e dunque usato tutto intero, il teatro si mostra per quello che è: una nemmeno lontana imitazione della piazza, un luogo circolare che può essere usato anche disobbedendo alla frontalità e alla gerarchia "naturale" del palcoscenico sopra e contrnla platea. In quel teatro, tutti sono partecipi della medèsima situazione, tutti sono protagonisti potenziali della discussione: tutti sono ospiti della trasmissione. Anzi, quelli che sono in scena non godono né di rilievo né di privilegio: evidenziati più come personaggi che come interpreti, restano spesso un po' alla deriva e un po' alla berlina. Sono certo meno a loro agio degli spettatori in sala, che prendono la parola con minori rischi, perché in fondo mantengono sempre il ruolo e il potere di chi fischia.e di chi applaude. Mettere in sala un'assemblea è proprio il contrario di mettere in scena un salotto: intanto il conduttore non avrà l'obbligo di essere un attore, anche se dovrà aggirarsi per la sala un po' cameriere e un po' domatore; quindi, quello che più importa, per gli spettatori/ attori non si tratta di parlare davanti a un pubblico ma di parlare in pubblico, e la differenza non è di poco conto, anche considerando quanto poco lo si faccia nella vita sociale in tempi come questi. Per questa scelta del "parlare in pubblico", la pur artificiosa comunità raccolta in teatro, non avrà problemi di rappresentazione né di rappresentatività: come non dovrà fare spettacolo ma soltanto accettare di essere mostrata, così il suo compito effettivo non è di illustrare al teleutente la fotografia di una realtà sociale e culturale, e nemmeno di dare l'idea di come oggettivamente sono o di come si vivono i problemi messi sul tappeto. Ci si dovrà esporre invece di esibirsi, si dovrà parlare in mezzo e contro gli altri, manifestando scelte ed opinioni senza il tempo e la compiacenza di raccontare le proprie storie di vita, in una 8 concorrenza errata, che non ha voglia né fa in tempo ad aspirare a quel confronto televisivo quasi sempre "da lieto - e concorde - fine". Dall'altra, anzi dalla stessa parte e cioè nèlla stessa arena, il conduttore televisivo dovrà realizzare un montaggio come in corsa e, nonostante la preparazione e la previsione, potrà e dovrà improvvisare egli stesso, denudando almeno qualcosa del uo lavoro, che di solito resta nascosto o sa di truccato, quando si tratta dell'abusato giornalismo da poltrona invece che da inchiesta. "Profondo Nord" presenta qualche non irrisorio vantaggio per il telespettatore: si entra in teatro ma non ci si accomoda, lo si attraversa come fosse una piazza. La gente che vi è raccolta è come un personaggio collettivo, tutti seduti eppure tutti come in movimento; il dibattito è abbozzato, incompleto, si solleva e rimane vivo come un rumore; l'inchiesta fa appena in tempo a cominciare ed è destinata a rimanere sospesa. Rimasti dunque insoddisfatti, ci si può accorgere di essere stati per davvero "curiosi": un fatto che non capita spesso davanti al televisore, che di norma ha il compito di appagare e perfino di ammorbare delle domande che non ci saremmo mai sognati di porre. Nel caso di "Profondo Nord", invece, almeno una domanda può sorgere autonomamente dal titolo, e restare tutto il tempo nella mente dello spettatore: una chiave di lettura· che se si applica ostinatamente può dare i suoi frutti. Spesso la discussione e la situazione invoglia a praticare un gioco di rovesciamento e di confronto con la profondità proverbiale del Sud. Invita a riscoprire differenze e devianze altrettanto intense e ben conservate, in quel Nord che è invece stato eretto ed eletto ad emblema di normalità e che, proprio in quanto tale, è stato così spesso indicato come meta e come modello per tutti gli altri territori d'Italia. Ci si era perfino dimenticati che potesse avere indigeni e origini non cancellate dalla funzione o dal destino di essere il posto che, fatta l'Italia, doveva contenere le fabbriche degli italiani. Ed in effetti le fabbriche hanno funzionato in tutti i sensi: hanno prodotto ricchezza, ma hanno anche attratto e coagulato attorno a sé il paesaggio antropico più completo e unificato della nazione. La popolazione delle città del Nord è la più ibrida e la più mista che ci sia: un vero e vasto (e unico) esempio di integrazione e,fusione di tutte le culture e razze regionali. E così può venire in mente che chiamare "lumbard" questo risultato o richiamarsi all'etnia in queste condizioni, è un tentativo per davvero "fuori luogo". E invece è proprio il Nord che da un po' di tempo sta tirando fuori il problema delle tradizioni, del dialetto, delle radici: in una parola, la questione dell'identità. E nessuno più discute come e cosa ci sia rimasto di identico, di originario e coerente, nella zona più incessantemente e rapidamente trasformata, più intensamente caratterizzata dai fenomeni di mobilità sociale e territoriale; nessuno, almeno da quando le Leghe sono riuscite ad organizzare e rivendere · sul piano politico-elettorale, questo evanescente eppure magico riferim~nto. Proprio in virtù di questa sproporzione fra il richiamo ad una "forte" identità regionale e la "naturale" candidatura alla modernità e al progresso, il Nord appare per davvero "profondo". Ma si tratta di un volgare equivoco o di una astuzia commerciale? Di un

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