Linea d'ombra - anno X - n. 67 - gennaio 1992

GENNAIO 1992 - NUMERO67 LIRE9.000 I immagini, discussioni e spettacolo SPED.IN ABB. POSTALEGR. 111-70%- VIA GAFFURIO4 - 20124 MILANO

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ProgetÌo.grafico: Andrea Rauch/Graphiti Ricerche redazionali: Alberto Cristofori, Natalia Delconte, Marco Papietti Pubblicità: Miriam Corradi Esteri: Pinuccia Ferrari Produzione: Emanuela Re Hanno contribuilo alla preparazione di questo numero: Davide Danti, Claudio Groff, Barbara Lanati, Jaime Nualart, Daniele Segre, la casa editrice Feltrinelli, il Goethe lnstitut di Milano, le agenzie fotografiche Cammelli Factory, Contrasto, Effigie e Grazia Neri. Editore:-Linea d'ombra Edizioni srl Via Gaffurio 4 - 20124 Milano Te!. 02/6691132. Fax: 6691299 Distrib. edicole Messaggerie !'e.iodici SpA aderente A.D.N. - Via Famagosta 75 - Milano Tel. 02/8467545-8464950 Distrib. librerie PDE- Viale Manfredo Fanti 91 50137 Firenze - Tel. 055/587242 Stampa Litouric sas - Via Puccini 6 Buccinasco (MI) - Te!. 02/45700264 Pellicole: Grafotitoli - Sesto S. Giovanni (Ml) LINEA D'OMBRA - Mensile di storie, immagini, discussioni. Iscritta al tribunale di Milano in data 18.5.87 al n. 393. Direttore responsabile: Goffredo Fofi Sped. Abb. Post. Gruppo III/70% Numero 67 - Lire 9.000 I manoscritti non vengono restituiti. Si pubblicano poesie solo su richiesta. Dei lesti di cui non siamo stati in grado di rintracciare gli aventi dirillo, ci dichiariamo pronti" a ottemperareagli obblighi relativi. LINEDA'OMBRA anno X gennaio 1992 numero 67 4 6 8 11 14 16 18 20 ··· ==::1rr/:ti Follia, populismo e reazione in Francesco Cossiga Riflessioni su Cuba Palcoscenico settentrionale L'individuo nel cattolicesimo italiano Luigi Bobbio Joaqufn Sokolowicz Piergiorgio Giacchè Pier Cesare Bori Filippo Gentiloni ~arlare tli religione. Osservazioni di un credente Per una storia della guerra fredda Marcello Flores Il Congresso per la libertà della cultura Ebe Flamini, Antonietta Leggeri La Libertà della cultura in Italia Ignazio Silane Nove risposte sullo stalinismo 23 Alfonso Berardinelli Sulla lingua e la poesia di Andrea Zanzotto 28 Domenico Scarpa Le "aritmie" di Attilio Bertolucci 30 Edoardo Esposito Per la critica e F. Binni sul Ritorno del narratore di P. Splendore (a p. 3'3), P. Bertinetti sulle Patrie immaginarie di Rushdie (a p. 34). Gli autori di questo numero a p. 78. 52 Walter Hollerer Poesie 59 P. Balakian, M. Doty, R. Dove, C. Forché, 67 68 71 74 56 40 J. Graham, T. R. Hummer,R. Katrovas, R. Long, N. S. Nye, S. Tichy, D. \,\lojahn Poeti statunitensi degli anni Ottanta a cura di Maria Cristina Devecchi Jorge lbarguengoitia Juan Villoro · Sandro Onofri Hugo von Hofmannsthal Pawel Huelle Philip K. Dick . Racconto per il bambino rivoluzionario Dalla casta divina alla· casta beduina La madre · Il teatro del nuovo a cura di Elisabetta Potthoff Memoria e segreti, da Danzica a cura di Fabio Gambaro Se questo mondo vi sembra spietato ... con una nota di Stefano Benni J■flllU,:tvl.111?111■.tìU:Rl l Lavorare con i drogati: M. Sinibaldi, La legge e la vita (a p.2); G. Bettin, Sulla strada, con metodo (a p.3); M. Longhi, R. Giolo, In una fitta foresta (a p.5); M. G. Faso/i, Tra clienti e pazienti (ap.8); P. Rigliano, Eroina, dolore e cambiamento, a cura di Z. Dazzi (a p. 10); L. Manconi e altri, Legalizzare la droga, un programma minimo ( a p. 14) con una nota di F. Gentiloni (a p. 15). Scuola e adolescenza: G. Armellini, I giovani e la letteratwa (a p. 16); Siamo anche così! Riflessioni di adolescenti, a cura di G. Sacchetti (a p. 19). Educatori e diseducatori: Mario Lodi, Una società che non rimuova l'infartZia, con una nota di G. Pontremoli (a p. 24); G. Fresco, Le esperienze di Korczak: il potere condiviso con i bambini (a p. 27); Janusz Korczak, L'educazione dell'educatore (a p. 29). Lettere: F. LaPorta, Meglio lo scontro che una triste tolleranza (a p. 31). La copertina di questo numero è di Elfo. Le foto del supplemento sono diStefanoPensotti (distribuzioneCammelliFactory, Torino). Abbonamento annuale (11 numeri): ITALIA L. 75.000, a mezzo assegno bancario o c/c. postale n. 54140207 intestato a Linea d'ombra. ESTERO L. 90.000.

IL CONTESTO Follia, populismo e reazione in Francese-o Cossiga Luigi Robbio Ogni notte la passi ascoltandoil tam-tamsotterraneoe tentando inutilmentedi decifrare i suoimessaggi.(...) Fai bene ad ascoltare, a nonallentareneancheper un attimo la tua attenzione;ma convincitidi questo: è te stessoche stai sentendo, è dentrodi te che i fantasmi prendonovoce. (ItaloCalvino, Un re in ascolto) L'archetipo del "re folle" è ben radicato nel nostro immaginario collettivo. La letteratura ci ha tramandato storie di imperatori che nominavano senatore il proprio cavallo o che intonavano canti innanzi ai bagliori dell'incendio da essi appiccato; di sovrani devastati dai sensi di colpa o rosi dalla vendetta; di re in ascolto nel chiuso dei loro palazzi. Abbiamo sempre saputo che nel potere può annidarsi la follia . .Eppure il caso di Francesco Cossiga ci ha sorpreso. Assomiglia, per alcuni versi, a quegli archetipi: per esempio nella denuncia ossessiva di complotti contro la sua persona, nella smania di ritorsioni, nel vittimismo, nell'aggressività verbale, nell'appello maniacale alle sue prerogative formali, nell'uso di formule imperiose (ormai fuori moda) del tipo "ordino e dispongo", nell'occupazione straripante degli spazi della comunicazione pubblica o nel circondarsi di uomini fidi (meglio se appartenenti alle forze armate). Ma se ne discosta in un punto fondamentale: qui la follia non è generata da un potere smisurato e disumano, ma da un potere limitato. Non nasce dalle vertigini del comando assoluto, ma dal seno di un ordinamento liberal-democratico che ha provveduto da secoli a dividere i poteri e sottoporli alla legge. È una follia politica e istituzionale (degli aspetti psicologici nulla sappiamo) come quella dei grandi sovrani d'ùn tempo, nel senso che appare strettamente connessa alla posizione ricoperta, ma paradossalmente scaturisce da una carica legalmente definita e a portata d'uomo, che parrebbe poco adatta a scatenare i demoni del potere . (da qui forse derivano certi connotati della follia presidenziale, come per esempio quella bonarietà ciarliera, che raramente si riscontra nei cupi modelli del passato). Come si concilia la follia del sovrano con una democrazia senza sovrani? Proviamo a sciogliere questo paradosso: potremo scoprire, attraverso un caso estremo, alcuni caratteri tipici della classe media politica italiana e del suo modo di rappresentarsi la realtà. La sindrome da re degli scacchi A ben guardare l'attuale follia presidenziale non è senza precedenti. Si potrebbe anzi dire che in Italia esiste una follia presidenziale ricorrente, di cui il caso in questione non rappresen- .ta che l'esito estremo. Tutti i presidenti della repubblica, specie se democristiani, ne hanno un po' sofferto, coltivando qualche sogno di onnipotenza al di là dei confini che gli sarebbero spettati. Gronchi volle imporre un governo di polizia bocciato dal parlamento. Segni si lasciò attrarre dal disegno golpistà del generale De Lorenzo. Leone si accontentò di dirottare il proprio potere verso piccoli privilegi. E anche Pertini, benché fosse di un'altra stoffa, non fu insensibile alle lusinghe del "potere senza potere". Insomma ci deve essere qualche morbo annidato nelle stanze del Quirinale. 4 Più esattamente i morbi sono due: l'indefinitezza della posizione istituzionale del presidente e i criteri di selezione concretamente adottati per la scelta del medesimo (specie se democristiano). La combinazione dei due aspetti ha generato una miscela esplosiva, di cui oggi vediamo tutti gli effetti dirompenti. Nel disegnare la figura del presidente della repubblica i costituenti non ebbero molta fantasia. Presero le prerogative tradizionali del re e le affidarono a una persona eletta ogni sette anni dal parlamento. L'idea era quella di farne un arbitro super partes e un rappresentante dell'unità nazionale, ma il modo di descrivere quel ruolo'fu ambiguo e contradditdrio. Con una mano gli si attribuirono imponenti poteri formali (si scrisse addirittura - nel solco della tradizione monarchica - che il presidente "ha il comando delle Forze Armate", frase a cui Francesco Cossiga pare morbosamente attaccato) e con l'altra glieli si negarono decretando l'irresponsabilità del presidente e sottoponendo tutti i suoi atti alla controfirma ministeriale. Ciò fece tra l'altro la gioia dei costituzionalisti che ebbero modo di riempire interi scaffali con sottili disquisizioni su ciò che il presidente poteva o non poteva fare (non è quindi strano che ora se la prendano con Cossiga che mostra di tenere in così poco conto i loro insegnamenti). Questa situazione di responsabilità irresponsabile era potenzialmente foriera di tempesta, ma nulla di grave sarebbe successo se non fossero subentrati gli specifici criteri adottati dal sistema politico per la scelta del presidente. Se si eccettua il caso di Luigi Einaudi, i presidenti non furono scelti per le loro qualità, ma al contrario proprio per la loro vistosa assenza di qualità. L'elezione (specie dei presidenti democristiani) non fu il risultato di una scelta intenzionale, ma piuttosto l'esito imprevisto di aggiustamenti successivi, prodotti dall'elisione di candidati forti. La Dc non è mai riuscita a imporre il suo candidato ufficiale. La stessa candidatura di Pertini emerse malgrado il Psi. Il sistema politico italiano ha finito così per aprire la strada del Quirinale a politici di profilo non particolarmente alto, che parevano garantire non tanto la funzione di supremo arbitro, quanto quella di benevolo spettatore. L'unico candidato eletto intenzionalmente, al primo turno, fu Francesco Cossiga, ma Foto Team Editoriol Service/G. Neri.

questo avvenne proprio perché i partiti erano riusciti, fin dall 'inizio, ad accordarsi su un personaggio defilato, prevenendo così gli estenuanti aggiustamenti che avevano contrassegnato tutte le precedenti elezioni (e infatti per cinque anni Cossiga si attenne scrupolosamente alla parte assegnata). È così avvenuto che politici democristiani abituati a operare sotto la protezione del partito, della corrente o del clan in una posizione di potere senza responsabilità individuale, siano stati sbalzati ali' improvviso in una condizione diametralmente opposta di solitudine, di grande visibilità individuale e di responsabilità senza potere. Uomini di più forte fibra avrebbero forse retto l'urto. Ma i no tri presidenti hanno cominciato tutti, chi ,più e chi meno, a vacillare e a manifestare la sindrome del rt:!degli scacchi: del re che non può muoversi se non con piccoli passi, che invidia le scon-ibande concesse alla regina, ma che resta pur sempre re. È stato così quasi inevitabile che !'"uomo solo" fosse tentato di scindere le proprie responsabilità dalla rissosa comunità politica dalla quale proveniva e di stabilire un filo diretto con quelle che egli percepiva come le esigenze del paese. Più_sembrava allargarsi il fossato tra la "gente" e il "palazzo", più il presidente era sospinto a dimettere gli abiti del!' arbitro per assumere quelli dell 'antagonista, usando a suo vantaggio la straordinaria combinazione di responsabilità (morale) e di irresponsabilità (politica), che i costituenti - senza avvedersi del pericolo - gli avevano attribuito. Come il matto che crede di essere Napoleone, così il capo dello stato ha cominciato a credere di essere a capo dello stato. Si dice che Cossiga ha di fatto introdotto una repubblica presidenziale in Italia. Niente di più falso. Si vede a occhio nudo che in Cossiga non c'è nulla dello sfile e della responsabilità di un Bush o di un Mitterra11d. Egli è semplicemente un presidente di repubblica parlamentare deviato, che ha portato alle estreme conseguenze l'irresponsabilità propria di una classe politica garantita da quarant'anni di impunità, approfittando degli inusitati margini di manovra offerti dalla sua speciale posizione istituzionale, insieme centrale ed eccentrica. Il tentativo dei socialisti di rafforzare l'opinione presidenzialistica sulla scorta dell'esempio cossighiano si è rivelato per lo meno improvvido. Dal caso in questione si potrebbe piuttosto ricavare qualche argomento a favore di una repubblica a-presidenziale. Se occorre un grande Maggiordomo di Stato, in grado di accreditare ambasciatori e inaugurare autostrade, si potrebbe provvedere in modo meno costoso. Se occorre un supremo arbitro bisognerebbe fare attenzione che egli non debba a sua volta essere arbitrato (e da chi poi? il dramma della situazione attuale è che non c'è nessuno che possa arbitrare l'arbitro). I sassolini di Cenerentola La svolta di'Francesco Cossiga si è manifestata prima di tutto sul piano linguistico. Ha abbandonato il linguaggio della politica e si è messo a parlare il linguaggio quotidiano (e quotidianamente). Anche Pertini aveva fatto qualcosa di simile. Ma mentre in lui prevaleva l'indignazione, in Cossiga prevale lo sfogo. La sua è una demagogia più elementare e terra terra. Non si basa sull'ap-. pello a grandi valori, con quel tono vagamente ottocentesco che contrassegnava la prosa di Pertini, ma piuttosto sul risentimento personale. Non declama, ma sciorina a ruota libera la rivalsa dell'uomo qualunque. Spesso si libera del suo stile colloquiale, per fare puntigliosamente appello alle sue prerogative costituzionali. E il suo linguaggio si fa improvvisamente imperioso e formale. Parla insomma come uno di noi, ma non smette di ricordarci che il re è lui. E che pretende obbedienza dai cortigiani riottosi (specie se magistrati). Pare che tutto questo piaccia alla gen_te.Non so dire se questo IL CONTESTO è vero (conosco poca gente), ma credo che il successo popolare di Francesco Cossiga - se esiste - non derivi tanto dall'apprezzamento politico,, per la sua capacità di denunciare i difetti del sistema, né dal la riconoscenza dovuta a chi si è messo dalla nostra parte. Gli istinti che Francesco Cossiga suscita nella "gente" sono probabilmente molto più elementari e pre-politici. Chi non si identificherebbe in questo sogno: essere per un giorno al vertice del paese e poter strigliare a dovere tutte le persone che gli sono antipatiche, riservandogli epiteti che non oserebbe usare al bar o in ufficio (dove non la farebbe franca)? Chi non sognerebbe come Cenerentola di partecipare al gran ballo, perdere la scarpetta, togliere i sassolini dalla medesima e tirarli, magari con la fionda, contro 'principi e arciduchi, sapendo che a mezzanotte la carrozza si trasformerà in zucca e nessuno sarà più in grad9 di rintracciarla? Il populismo di Cossiga non offre riscatto, ma un'eccitante rivalsa con il brivido dell'irresponsabilità. Le istituzioni come capro espiatorio Se la forma assunta dalla follia presidenziale contiene elementi inquietariti, la sua sostanza non è certo da meno. Essa esprime in modo emblematico, benché estremo, alcuni umori diffusi in una classe politica sgomentata dalla sua stessa crisi. C'è aria di naufragio nel palazzo. Diminuiscono i voti, aumentano le risse.· Qualsiasi questione grave, importante o drammatica (si tratti delle riforme istituzionali, del debito pubblico o della lotta - alla mafia) viene immediatamente ritradotta nel linguaggio delle faide di partito e triturata verso un destino inconcludente. Ecco allora l'idea: perché la cittadella assediata non dovrebbe porsi alla guida dell'assedio contro se stessa? autocircondarsi ed autoespugnarsi? A sostenere questa prospettiva viene in soccorso l'ideologia dello sfascio. Si tratta di un'ideologia che in Italia ha radici antiche: si è nutrita delle denunce legittime, anche se approssimative, dell'opposizione e dello scandalismo di una ·stampa pronta a menare fendenti terribili quanto poco mirati. E si è rivelata congeniale anche a una parte degli uomini di potere. Essa infatti gli ha consentito di proiettare la loro crisi-quella del sistema politico - sull'intera società italiana e le sue istituzioni e di coinvolgere tutti in un abbraccio mortale. In quale altro paese, paragonabile ali 'Italia per tradizioni culturali e sviluppo economico, potremmo immaginare una classe dirigente che analizza le prospettive future discettando di "sfascio" e di "piccone"? È questo un tentativo estremo ed estremamente pericoloso di salvare il potere sostanziale attraverso la delegittimazione del potere formale. Nei momenti di crisi e di trapasso una delle funzioni istituzionali del potere è quella di fungere da capro espiatorio; tale funzione è tanto più probabile quanto più il potere è personale, isolato ed esposto, come appunto quello del presidente. Ecco allora che per sottrarsi a questo destino, il potere (sostanziale) deve dirottare l'attenzione del pubblico sulle forme istituzionali su cui sta seduto, sperando di potersi rilegittimare come deligittimatore delle sue stesse basi formali. Il tema delle riforme istituzionali, così come è stato avviato e portato avanti, ha sempre avuto anche una funzione di alibi per la classe politica: quella di mettere sotto accusa un assetto impersonale-le regole - per mostrare la propria volontà riformatrice e, nello stesso tempo, continuare tranquillamente lo stesso gioco al riparo delle vecchie regole, dal momento che era evidente che non esistevano le condizioni per modificarle. Ma come c'era da aspettarsi, il gioco ha finito per prendere la mano ai giocatori. Non sono state fatte le riforme istituzionali, ma è stata erosa dall'interno la legittimità del patto costituzionale con la conseguenza di precipitare i giocatori in uno stato di arbitrio in cui tutti i colpi sono ammessi. 5

IL CONIUTO L'ingresso sulla scena di Cossiga ha accelerato ~ruscamente questo processo e lo ha indirizzato verso mete p~tJcolarment~ inquietanti. Le picconate del presidente sono dirette contro 1 politici, la partitocrazia, il consociativism_o, la magi_s~at~rae tut_te le più importanti istituzioni della re_Pubbhca (cara?1men e~clus1), ma allo scopo di difendere il vecch10 potere. Cossiga predica una svolta epocale, ma in realtà prefigura una sorta di palingenesi purificatoria da cui dovrebbe riemergere, sotto le macerie delle istituzioni, l'antico regime di sempre. Dice di aver abbandonato la Democrazia Cristiana, ma i suoi punti di riferimento restano democristianissimi: quelli costruiti saldamente nella guerra fredda tra poteri occulti, forze armate e servizi segreti. Il suo orizzonte è tutto lì e quando ammicca all'uomo della strada, è in realtà a quegli ambienti che si rivolge (non senza essere contraccambiato). Questa è la sua cerchia naturale, forse l'unica che ·conosce veramente. Le tappe della sua follia sono state tutte scandite su rivelazioni connesse alla strategia della tensione e alla P2. Le sue picconate sono state indirizzate a senso unico sui disvelatori. Ed è davvero curiosa questa crociata contro la partitocrazia che si propone di debilitare l'unica istituzione pubblica - la mag~stratura-=-che in questi anni ha sferrato qualche colpo alla corruzione e ai traffici dei partìti. In realtà, la follia presidenziale è un continuo interesse privato in atti d'ufficio; una critica del potere in nome dell'abuso di potere, una critica alla partitocrazia confusionaria in nome di una serena criptocrazia (ovvero "i patrioti", secondo la formula presidenziale).· L'eredità di Francesco Cossiga Cossiga non è ovviamente un golpista. È troppo scoperto, sprovveduto e autocentrico. Non ha un vero e proprio progetto. Né sembra in grado di tesserlo. È soltanto un confuso agitatore. Gli esiti immediati del cossighismo non sono perciò probabilmente molto allarmanti. Verosimilmente, la Dc di Andreotti, che · tanta parte ha avuto, con le rivelazioni su Gladio, a scatenare la follia presidenziale, riuscirà alla fine a contenere la scheggia impazzita, anche grazie alla scelta dell' impeachment compiuta dalle opposizioni di sinistra. E alla fine la parola tornerà, come sempre, ai Pomicino, ai Gava, ai De Mita, ai Forlani. I più forti restano loro, non c'è il minimo dubbio. Ma non è detto che il biennio cossighiano non siain grado di generare qualche effetto nel lungo periodo. Esso ha insinuato per la prima volta in Italia il germe del populismo reazionario; ha mostrato che si può ipotizzare un'alternativa al regime in nome del medesimo regime; che la classe dirigente può rintuzzare le contestazioni che provengono dalla società civile, mettendosi essa stessa a capo dell'opposizione di se stessa. Il suo (supposto) successo di popolo convincerà gli altri a imbarcarsi su questa strada (per esempio il Psi di Craxi, che a queste convinzioni era già arrivato per conto suo, senza tuttavia osare tanto), soprattutto nei momenti - che non saranno rari - di acuta crisi del sistema politico. Uno di questi è ormai alle porte. C'è per esempio .qualche possibilità che con le prossime elezioni politiche i quattro partiti di governo perdano la maggioranza in tutto il Centro~Nord e conseguano un ampio consenso nelle regioni del Sud. In tal caso; potrà reggersi un governo legittimato da solo metà del paese? Non verrà in mente a qualcuno l'idea di uscire dalla strettoia riprendendo la sostanza della via indicata dal presidente? Lo scenario futuro potrebbe quindi proporci un'alternati va tra due forze di regime, l'una continuista, mediatrice e minimizzatrice, e l'altra populista, picconatrice e sfascista, con una sinistra che rischierà di cadere nelle braccia della seconda quando cercherà di sollecitare l'opposizione popolare e nelle braccia della prima quando si proporrà di difendere un minimo di convivenza civile: Può darsi che questa previsione sia solo un incubo. Ma è bene tenere presente che, se la follia presidenziale di Francesco Cossiga a un certo punto, come ci auguriamo, svanirà nel nulla, l'eredità che ci lascia pùò essere molto preoccupante. Il 11 lider maximo'' e i suoi sudditi Riflessioni su Cuba Joaquin Sokolowicz Non c'è da compiacersi, per carità, di un assetto mondiale in cui una superpotenza -1' unica rimasta - è in grado di imporre arbitrariamente la sua volontà a un paese piccolo. Né del fatto che questo possa essere strozzato dal gigante se non si piega alle imposizioni. Certo, ogni paese dev'essere libero di scegliersi il sistema so<:_iale di governo che vuole. Chi è, però, che deve scegliere? E ·forse giusto che colui che è in alto decida come devono vivere quelli che stanno in basso? Vecchi interrogativi, questi, riproposti oggi dalla drammatica situazione economica in cui è costretto a vivere un popolo nel nome della parola d'ordine "Socialismo o muerte". È veramente disposto questo popolo al sacrificio supremo? E se non fosse d'accordo, ha la possibilità di opporsi? È ingiusto senza dubbio, un ordine mondiale in cui il superpotente pretende di imporre ai deboli il proprio sistema economico, basato sullo sfruttamento, su mille forme di corruzione e su privilegi predeterminati. C'è da chiedersi, però, se si sia dimostrata efficace l'alternativa cubana: dopo 33 anni, finita l'era in cui l'Unione Sovietica fo1;1iva petrolio ametà prezzo e comprava zucchero al doppio, è il disastro. E non è vero che la colpa sia del 6 blocco economico applicato dagli Stati Uniti, perché ('Avana ha goduto permanentemente di rapporti di collaborazione economica con numerosi paesi, a cominciare da queJIi dell'Europa occidentale. Le cose non hanno funzionato, insomma, ma il capo non desiste. E il suo encomiabile attaccamento ai principi della Revoluci6n, contro il tradimento dei "revisionisti" di Mosca (come se Gorbàciov avesse scelto i cambiamenti per diletto e non per lo stato catastrofico dell'economia sovietica)·, rappresenta una minaccia di tragiche conseguenze per il popolo, al quale viene detto che deve resistere a tutti i costi. Come suggerisce quanto scritto giustamente da Saverio Tutino, bisogna domandarsi perché Castro non si faccia da parte per evitare un possibile bagno di sangue ai cubani. O forse, per salvare il salvabile del sistema socialista, socialismo e dittatura d_iCastro sono inseparabili? Senza di lui non c'è la costruzione dell'uomo nuovo? Sé è così, c'è un controsenso nei suoi discorsi in difesa della volontà del popolo. La storia insegna a chi _vuoleimparare. Siamo ancora al lider maximo, come se non sapessimo cosa c'è allà base-e come va a finire invariabilmente F delle esaltazioni del "piccolo padre", del "grande timoniere", òel "duce", del "primer trabajador", del

Foto di Roberto Koch (Controsto). "comandante supremo" e via dicendo nei vari tempi e paesi. Guarda caso, anche ali' Avana, come altrove in regimi tirannici, designato alla successione è il parente più stretto del capo, il fratello Raul. Nessun dubbio sfiora i partigiani senza riserve della rivoluzione tropicale, dopo oltre tre àecenni di esercizio di un mandato che non ha poi scadenze? Una caratteristica comune a quasi tutte le tirannie è quella di trattare il popolo come una massa di bambini deficienti. Come può una persona mediamente intelligente non sentirsi imbarazzata nel leggere sulla stampa ufficiale cubana che Raul Castro, mentre si accingeva davanti allo specchio a lavarsi i denti, è scoppiato a piangere per essere stato costretto a chiedere la condanna a morte per alcuni vecchi compagni d'armi? Cronaca dal ton9 serissimo sulla stampa ufficial'e, attraverso I' agenzia governativa, in Tv ! Era I' 89, in occasione della condanna del generale Ochoa e di altri tre militari di alto rango. Un processo contro i presunti responsabili di un ingente traffico intèrnazionale di stupefacenti durato tre anni e "improvvisamente scoperto", in un paese nel quale ogni movimento è controllato, figurarsi quello delle basi aeree! "Le Monde" scrisse che "troppi processi insultan'ti la giustizia più elementare sono gi'à avvenuti a Cuba per prendere come oro colato quello che ci fanno vedere oggi." E perfino "il Manifesto", certo non sospetto di anticastrismo, annotò : "Sembra di rivedere un vecchio film", essendoci nel soggetto le arcinote "purghe" e "a_utocritiche" di memoria est-europea. La "scoperta" che fece piangere l'addolorato Raul con lo spazzolino in mano era in verità un espediente per fermare eventuali ritorsioni degli statunitensi. Il narcotraffico era gestito dal regime attraverso lo "MC", un organo dipendente dai servizi segreti che doveva far affluire nelle casse cubane valuta pregiata con qualsiasi mezzo. Racconta Iliana de la Guardia, figlia del colonnello capo di quell'ufficio - uno dei quattro giustiziati -, ora che è protetta dall'asilo politico a Parigi: "A noi giovani dicevano che tutto quello che fa danno ali' imperialismo americano è buono per la Rivoluzione". Per esempio, lo smistamento di droga verso gli Stati Uniti. E raccorita anche di aver visto ali' Avana, scortato da agenti cubani, il grande narcotrafficante Robert Vesco, ricercato da anni dall'Interpol. Anche a voler. ammettere che per assicurare la sopravvivenza del sistema socialista tutto è legittimo, quali sono i principi ideali che autorizzano a uccidere compagni che hanno semplicemente svolto i compiti loro affidati dal fratello-successore e comandante delle IL CONTESTO forze armate? "Emissari di Fidel andarono a trovare mio padre, in cella, per chiedergli di ammettere tutto, di fare autocritica in aula, perii bene della Rivoluzione, e che poi tutto si sarebbe aggiustato", ricorda Iliana. Lo StefsO sarà avvenuto con gli altri "imputati". Poi, quando ormai appariva chiaro l'inevitabile esito, ecco le promesse fatte da Garcfa Marquez ai familiari disperati che cercavano aiuto: "Ma non è possibile! Parlerò con Fidel e le cose si metteranno a posto." Le cose si sono messe a posto per il regime, co le fucilazioni. Un particolare quanto meno curioso: contro il generale Ochoa non c'è stata una sola prova, una sola testimonianza che indicasse un suo coinvolgimento nemmeno. indiretto nel traffico oggetto del processo. Nella requisitoria contro di lui, Raul Castro mosse accuse che con la droga non c'entravano: "comportamento populista", "battute di spirito fuori luogo in pubblico". Sono 'buoni motivi per togliere la vita a un uomo, à uno che per di più era stato decorato come "eroe della rivoluzione" quando era comandante delle forze militari cubane in Angola? Racconta Jorge Masetti, compagno di Iliana, ex membro dellla commissione dirigente del Pc cubano, responsabile dei rapporti con le sinistre armate latino-americane, oggi anche lui a Parigi: "Ochoa aveva espresso diverse volte a Raùl le sue divergenze sull'utilità di quella missione nel paese africano; in presenza di altri compagni". E la 'vedova dello stesso Ochoa riferisce che il maritò ebbe una discussione accesa con il fratello di Castro e "36 ore dopo venne arrestato". Tutti gusanos (vermi) quelli che riferiscono queste cose e quelli che se ne sono andati da Cuba? Sono uguali i due figli della Rivoluzione rifugiati in Francia agli affaristi cubani di Miami? Affarista e delinquente anche l'ex comandante Huber Matos, che dall'esilio denuncia le degenerazioni tiranniche del regime? E il profugo ex generale Rafael del Pino, uno dei primi guerriglieri negli anni Cinquanta? E Carlos Franqui? Vermi traditori anche i poeti messi ultimamente in galera? E gli attivisti della difesa dei diritti umani come Gustavo Arcos, che non hanno voluto mai abbanèlonare l'Avana per lottare dall'interno? Tutti i gruppi di opposizione sono da considerare alla stregua di Fundaci6n Nacional, l'aggregazione tradizionale degli oppositori esuli a Miami tra cui erano mischiati ambienti malavitosi e gruppi in rapporto con la destra statunitense? No, oggi esistono Concertaci6n Democratica all'interno di Cuba e Plataforma Democratica all'estero, coalizioni di oppositori politici non sospetti. O bisogna forse attendere di leggere in futuro, forse dopo un'ondata di violenza che potrebbe investire i cubani, che le cose ali' opposizione non sono esattamente quelle che oggi raccontano i vertici del regime? E, chissà, anche qualche rivelazione sulle vere cause dei numerosi suicidi di ex protagonisti della rivoluzione ("momentanea depressione") che ci sono stati in questi 33 anni? I cubani che per comprare ogni prodotto fanno la fila, che hanno le tessere di un razionamento sempre più limitato e percorrono chilometri in bicicletta perché non c'è benzina per le auto sanno che vicino al loro paese, nella sconfinata America Latina depredata dall'egoismo di potenze straniere e di ristretti gruppi privilegiati interni, la maggioranza della gente sta peggio di loro. Forse è per questa ragione che non scendono in strada a protestare, o perché sanno di avere un servizio di assistenza sanitaria che altri latino-americani nemmeno si sognano. Ma ragiona in questi termini un essere umano, mentre attende ogni giorno il suo turno in fila o al momento in cui si alza da tavola ancora affamato? Ha la capacità di riflettere, in queste circostanze, sul bisogno di un prezzo da pagare per un promess9 futuro luminoso? La risposta riguarda in ogni caso i limiti della sopportazione dell'individuo. 7

IL CONTESTO Palcoscenico settentrionale Su una trasmissione televisiva Piergiorgio Giawhè "Profondo Nord" è una trasmissione che viaggia di città in città, anzi di teatro in teatro. Un teatro con dentro la gente di una città. E fin qui niente di nuovo. Sono frequenti le trasmissioni ordi-. narie e i collegamenti speciali che usano il teatro cittadino come una basilica laica, oltre che come spazio quasi attrezzato alla bisogna televisivo-spettacolare. Sono anche sempre più sfacciati gli abusi del teatro per rubargli quell'effetto vivo, di casualità e di relazionalità che va ben oltre il pubblico surgelato (soprattutto quando applaude) di quei giganteschi studi uno e due e tre dei varietà televisivi. Il Teatro rende meglio - e basta da solo - per dare l'idea della · Comunità: sembra sufficiente collocare una qualunque manifestazione in un teatro, perché vi restino su appiccicati i segni postumi e ambigui di una comunione che non esiste da tempo; che forse non è mai esistita e non si è mai pretesa, eppure, a vedere in tv la gente radunata in un teatro, quell'idea riaffiora e resta imbattibile. Sarà perché appunto in televisione si ottiene, del teatro, soltanto la sua immag_inee, come ci scriverebbe su Magritte, "questo non è un teatro". "E molto di più e di meglio!", può infatti sottoscrivere più di un presentatore televisivo che, sorridendo sotto i baffi e sopra la camicia, ha da tempo imparato come il teatro sia il primo trucco della diretta: si può andare in differita e si ha ugualmente la sensazione della contemporaneità e fisicità dell'evento. Ma a teatro valgono anche altri trucchi, a seconda del modo in cui si usa. "Profondo Nord" ad esempio adopera il teatro come sede di un'assemblea. Inquadrato globalmente e dunque usato tutto intero, il teatro si mostra per quello che è: una nemmeno lontana imitazione della piazza, un luogo circolare che può essere usato anche disobbedendo alla frontalità e alla gerarchia "naturale" del palcoscenico sopra e contrnla platea. In quel teatro, tutti sono partecipi della medèsima situazione, tutti sono protagonisti potenziali della discussione: tutti sono ospiti della trasmissione. Anzi, quelli che sono in scena non godono né di rilievo né di privilegio: evidenziati più come personaggi che come interpreti, restano spesso un po' alla deriva e un po' alla berlina. Sono certo meno a loro agio degli spettatori in sala, che prendono la parola con minori rischi, perché in fondo mantengono sempre il ruolo e il potere di chi fischia.e di chi applaude. Mettere in sala un'assemblea è proprio il contrario di mettere in scena un salotto: intanto il conduttore non avrà l'obbligo di essere un attore, anche se dovrà aggirarsi per la sala un po' cameriere e un po' domatore; quindi, quello che più importa, per gli spettatori/ attori non si tratta di parlare davanti a un pubblico ma di parlare in pubblico, e la differenza non è di poco conto, anche considerando quanto poco lo si faccia nella vita sociale in tempi come questi. Per questa scelta del "parlare in pubblico", la pur artificiosa comunità raccolta in teatro, non avrà problemi di rappresentazione né di rappresentatività: come non dovrà fare spettacolo ma soltanto accettare di essere mostrata, così il suo compito effettivo non è di illustrare al teleutente la fotografia di una realtà sociale e culturale, e nemmeno di dare l'idea di come oggettivamente sono o di come si vivono i problemi messi sul tappeto. Ci si dovrà esporre invece di esibirsi, si dovrà parlare in mezzo e contro gli altri, manifestando scelte ed opinioni senza il tempo e la compiacenza di raccontare le proprie storie di vita, in una 8 concorrenza errata, che non ha voglia né fa in tempo ad aspirare a quel confronto televisivo quasi sempre "da lieto - e concorde - fine". Dall'altra, anzi dalla stessa parte e cioè nèlla stessa arena, il conduttore televisivo dovrà realizzare un montaggio come in corsa e, nonostante la preparazione e la previsione, potrà e dovrà improvvisare egli stesso, denudando almeno qualcosa del uo lavoro, che di solito resta nascosto o sa di truccato, quando si tratta dell'abusato giornalismo da poltrona invece che da inchiesta. "Profondo Nord" presenta qualche non irrisorio vantaggio per il telespettatore: si entra in teatro ma non ci si accomoda, lo si attraversa come fosse una piazza. La gente che vi è raccolta è come un personaggio collettivo, tutti seduti eppure tutti come in movimento; il dibattito è abbozzato, incompleto, si solleva e rimane vivo come un rumore; l'inchiesta fa appena in tempo a cominciare ed è destinata a rimanere sospesa. Rimasti dunque insoddisfatti, ci si può accorgere di essere stati per davvero "curiosi": un fatto che non capita spesso davanti al televisore, che di norma ha il compito di appagare e perfino di ammorbare delle domande che non ci saremmo mai sognati di porre. Nel caso di "Profondo Nord", invece, almeno una domanda può sorgere autonomamente dal titolo, e restare tutto il tempo nella mente dello spettatore: una chiave di lettura· che se si applica ostinatamente può dare i suoi frutti. Spesso la discussione e la situazione invoglia a praticare un gioco di rovesciamento e di confronto con la profondità proverbiale del Sud. Invita a riscoprire differenze e devianze altrettanto intense e ben conservate, in quel Nord che è invece stato eretto ed eletto ad emblema di normalità e che, proprio in quanto tale, è stato così spesso indicato come meta e come modello per tutti gli altri territori d'Italia. Ci si era perfino dimenticati che potesse avere indigeni e origini non cancellate dalla funzione o dal destino di essere il posto che, fatta l'Italia, doveva contenere le fabbriche degli italiani. Ed in effetti le fabbriche hanno funzionato in tutti i sensi: hanno prodotto ricchezza, ma hanno anche attratto e coagulato attorno a sé il paesaggio antropico più completo e unificato della nazione. La popolazione delle città del Nord è la più ibrida e la più mista che ci sia: un vero e vasto (e unico) esempio di integrazione e,fusione di tutte le culture e razze regionali. E così può venire in mente che chiamare "lumbard" questo risultato o richiamarsi all'etnia in queste condizioni, è un tentativo per davvero "fuori luogo". E invece è proprio il Nord che da un po' di tempo sta tirando fuori il problema delle tradizioni, del dialetto, delle radici: in una parola, la questione dell'identità. E nessuno più discute come e cosa ci sia rimasto di identico, di originario e coerente, nella zona più incessantemente e rapidamente trasformata, più intensamente caratterizzata dai fenomeni di mobilità sociale e territoriale; nessuno, almeno da quando le Leghe sono riuscite ad organizzare e rivendere · sul piano politico-elettorale, questo evanescente eppure magico riferim~nto. Proprio in virtù di questa sproporzione fra il richiamo ad una "forte" identità regionale e la "naturale" candidatura alla modernità e al progresso, il Nord appare per davvero "profondo". Ma si tratta di un volgare equivoco o di una astuzia commerciale? Di un

Manifestazione leghista in Lombardia !foto di Dino Frocchio/Controsto) malessere culturale o di una protesta politica? Di un reale bisogno di riaffermare un'identità purchessia o di mascherare con un concetto nobile e intoccabile, un più banale e raffazzonato patrimonio di atteggiamenti e di valori, non più riconosciuti e minacciati dalle corruzioni e dalle disfunzioni di tutta l'altra Italia? A sentire e ancor meglio a spiare la gente incontrata e raccolta da Gad Lerner nel "Profondo Nord", si avverte il tono di una generica delusione, dovuta al sospetto che una serie di attributi tipici, di qualità tradizionali da Italia Settentrionale - fino a ieri elette a norma(lità)-siano progressivamente scivolate nella bassa • classifica: l'operosità ostinata e la solidarietà organizzata, la furbizia onesta e la generosità calcolata ... e tutte le altre personificazioni di un antico e saputo teatro delle Virtù, non vengono più 'citate con orgoglio, ma talvolta sono rivendicate come caratteristiche etniche da difendere, talaltra rilanciate come proposte etiche da esportare. Dove? Al Sud, naturalmente. A Roma, se fosse possibile e credibile. Forse il sentimento leghista è tutto qui, ma è più importante del successo elettorale e del progetto risorgimentale dell'Italia confederata. Certo è che le discussioni allarmate e interessate sulle Leghe fanno capire poco o nulla del sentimento che le muove, che le autorizza, ma anche le trascende, contagiando generosamente la gente degli altri partiti e dei senza-partito; di quell'atteggiamento "leghista" o più semplicemente "nordista" che caratterizza una mentalità - come avrem.modetto ieri al posto di "identità", stando persino attenti a parlarne con precauzione, per evitare di fare di ogni persona un Fascio. La scommessa o la speranza generale, è infine che ci sia davvero qualcosa, che raccolga una storia disordinata e talvolta disonorevole, che riassuma un significato qualunque di qualche pregio, e che dunque valga lapena di sviluppare e di difendere. Se è profondo, vorrà dire che in parte è sconosciuto e inconoscibile, salvaguardato come un tesoro e dunque senza fatica, senza responsabilità, senza colpa. Chiamarlo "identità" può essere sbagliato ma è conveniente. Riduce la questione della propria definizione collettiva a un dato passivo e comodamente arcaico. Illude sulla sua inevitabile esistenza e resistenza ai cambiamenti e alle degenerazioni, ci fornisce di una automatica tradizione (non importa se del tutto dimenticata) e ci autorizza a sventolare una progettualità (non importa se soltanto IL CONTESTO di°fensiva).Ma il vantaggio più convincente di questa "profonda identità", è forse quello di evitare di fare i conti con la più preoccupante e meno soddisfacente identità sociale e culturale attuale: quella che inevitabilmente discende dalle trasformazioni provate e dagli sradicamenti pagati fin qui, ma anche quella che non ha più la possibilità di restringersi nei confini delle comunità rionali o regionali, per i doveri di corrispondere ad un rivoluzionario e dilatato rapporto con un territorio che equivale al mondo intero. E però è pur vero che i luoghi e i modi che la gente ha a disposizione per affrontare i problemi e i temi del presente, si fanno rispettivamente sempre più circoscritti e sempre più circospetti. Oltre la convenienza, c'è allora un forzato adattamento al mito della piccola e locale "identità profonda", o almeno una contraddizione grave e reale, fra le possibilità e le volontà di discutere e confrontarsi in piccole adunanze locali e le impotenze e le manipolazioni che tolgono terreno e speranza alle grandi dìscussioni e alle grandi associazioni nazionali (i partiti, per fare un sempre più unico e fallimentare esempio). "Profondo Nord" è una trasmissione televisiva tra le tante che mettono in campo l'adunanza limitata di una comunità locale, ma anche una delle poche che si mostrano consapevoli degli scarti esistenti fra il teatro delle relazioni concrete e possibili e il panorama dei problemi nuovi e forse imprendibili. Ogni volta un tema, di quelli finalmente nuovi ed attuali, cerca di farsi intendere sotto l'aspetto e dentro le dimensioni di un problema concreto di una città del nord. Si tocca allora con mano come, nonostante le convinzioni e le buone volontà correnti, sia facile e fallimentare la speranza di quanti predicano che è nell'immediatezza e nella concretezza dei problemi di ogni giorno, nel confronto con le opinioni della gente, che si risolvono le grandi questioni. Invece di apprende che le grandi questioni non si risolvono affatto; comunque vadano le discussioni sui loro piccoli effetti; che l'assemblea serve soprattutto a riflettere e a riflettersi, e non è affatto un esercizio inutile; così come, per il telespettatore, non è affatto uno spettacolo poco istruttivo. Che si parli del centro storico di Genova o degli orafi di Valenza Po, tutti i problemi della convivenza risentono o si affacciano sul tema di tina minacciata sopravvivenza: l'identità è soltanto l'alibi e magari la bandiera, ma la paura dell'altro è ben più concreta e .materiale. Adesso non si è più al tempo dell'immigrazione che ha fatto grandi le fabbriche e le città del nord: adesso non si tratta più di aumentare la produzione, ma di spartirsi i consumi. La gente non crede affatto alle rassicurazioni dei sociologi e degli economisti: le immigrazioni presenti e soprattutto future non si vede come possano portare benessere, e ·non invece difficoltà e turbamenti in quell'ordine appena realizzato, in quella qualità della vita appena arraffata, in quella sistemazione beata-e non ancora raggiunta da tutti - fra i vialetti e le villette di una agognata, immensa e ridente periferia post-industriale. Così le assemblee del "Profondo Nord" si discutono addosso due posizioni contrapposte, di resistenza e di beneficenza, di cauta apertura o di sensato ,rifiuto, non più ripartite in destra e sinistra storica, ma divise fra volontari e c·oscritti, fra uomini di buona volontà e uomini di buon senso, fra gente buona e gente per bene. A parte qualche esagerazione e rari estremismi a fine di 9

ILCONIUTO propaganda, stupisce come, pur senza incontrarsi, entrambe le opzioni siano da tutti correttamente argoment_atf e occorre a(lora sfuggire alla tentazione di una somm_aalgebnca che 1~azzen e a quel trionfo di ragionevolezza, per cm s1_conv1en~c~e 11progresso è un bene ma la solidarietà è necessana, che e gmsto dare ma sbagliato sprecare, che è bello apr_irsie~ aiuta_rema senza per?ere le proprie posizioni, che servono 10vest1ment1e dunque conviene che qualcuno accumuli capita~e. . . . . . . . In modi civili ma ostinati da numom d1 condom1010 o nei termini più agitati di un consiglio comunale aperto, il "Profondo Nord" ancora una volta è all'avanguardia: forse perché anche terra di confine, sa cogliere per primo e con maggior nervosismo le preoccupazioni e le delusioni che stanno convertendo l'opinione pubblica nazionale. Lo stivale sa di affondare un po' troppo verso il Sud, quello vero, e spera di sollevarsi verso l'E~ropa promessa. Sarà presto per tutti un problema di "identità"? E questo che con limgimiranza già immaginano e propongono le Leghe, quando attaccando il Carroccio al Sud-Tirolo, alla Croazia e alla Sardegna, prefigurano la salvezza per-tutte le regioni nell'Europa·delle Etnie? Nella chiusura della propria piccola "identità profonda", ciascuno si può sentire accerchiato ed emarginato, ma si potranno trattare da estranee tutte le novità difficili e sgradevoli. Rigettarle o ignorarle invece di accettarle o comprenderle, in nome della propria difesa, "etnica". ' Per scongiurare questa profezia, non resta che fare affidamento - contro la federazione delle identità - sulle leggere eppure profonde differenze stereotipiche di mentalità, di status, di immagine, che ancora dividono dal profondo nord il più superficiale e disincantato meridione d'Italia. , Ad esempio, la platea di "Profondo Nord" è scandita in regolari settori, divisi con tanto di cartello secondo un rigore sociologico che CALMA, ... (viene subito in mente) sarebbe impraticabile al sud. Forse è proprio questo il dato semplice e strutturale su cui' si può appoggiare quella tipica eppure invisibile diversità della "normalità" settentrionale. Non fa meraviglia che i ruoli siano corrispondenti ai posti: si accetta senz'altro che una città_del nord si rappresenti in modo così ordinato, come non ci fossero relazioni familiari, amicali, casuali, in grado di sopravanzare le definizioni socio-politiche assembleari e di confondere tutto. Ma allo stesso tempo si può immaginare, e trovare altrettanto credibile, una platea ugualmente ben scandita ed ordinata per parlare dei problemi di Avellino, di Matera o anche soltanto di Macerata? Certamente sarebbe possibile, ma si prenderebbe per buona un'assemblea così concepita? Varrebbe davvero l'immagine di quelle città? Fra nord e sud, ormai a parità di problemi, le più gravi differenze non funzionano più: sono troppo vistose, troppo in superficie. E invece, più si osservano le sottigliezze, più si scopre che sono quelle "profonde". Un amico di Reggio Emilia mi faceva notare come le auto non si affollassero mai in doppia o tripla fila davanti al semaforo: in un'unica interminabile colonna, ciascuna aspetta il suo turno. Al via libera, come ovunque, scattano impazienti, e però senza guardarsi attorno: nessuno, in nessun caso, manifesta esitazioni o attenzioni superflue. Spesso gli incidenti capitano proprio per questo, mi spiegava: non c'è proprio l'abitudine e nemmeno iIsospetto che qualcuno non sia altrettanto ligio, che i semafori possano guastarsi, che un pedone possa disobbedire o distrarsi. Non è una insufficiente applicazione alla guida, ma un problema di disciplina: ciascuno è intento a seguire rispettosamente il suo corso, guardando bene davanti a sé e soltanto davanti. Come è profondo il Nord! NONPERDETLEATESTA Intorno a voi ci sono molte persone che si impegnano -per educare all'ambiente, allo sviluppo, alla convivenza multietnica, c'è tutta la difficoltà ma anche l'importanza ed il fascino de_lrapporto con l'infanzia e con i giovani, ci sono esperienze interessanti da conoscere e valorizzare, c'è anche un sommerso ma consistente "ben di scuola", c'è una rete di salvataggio, una rete fatta di servizi.,di professionalità, di strutture, di energie, dentro e fuori la scuola. E per collegare tutto'ciò con un ideale filo unitario, ci sono due riviste bimestrali (cinque numeri all'anno ciascuno), nate da una realtà di volontariato nell'educazione (Scholé Futuro, "associazione di idee") e che sono di proprietà dei loro lettori. , , Abbonatevi. Sostenetele. E importante. E una miscela di utopia e realismo che vi sorprenderà. ·Tutti i colori dell'educazione rossoscuola '.\Tuove idee per l'educazione Vn'educazione per un mondo nuoYo La libertà è naturale éeole La prima rivista itaiiana di educazione ambientale Abbonamento annuale cumulativo (10 numeri complessivi) Lire 40.000 Versamenti sul ccp 26441105 Scholé Futuro, Via San Francesco d'Assisi 3, 10122 Torino - Tel. 011/54556 7 - Fax 011/549552 COPIE SAGGIO SU RICHIESTA

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