SAGGI/ ANDERS soltanto mescolata con la farsa, come la tragedia dei nostri avi): dunque la si può ·rappresentare soltanto come una farsa: come unafarsa ontologica; non come una commedia. Ed è qùel che fa Beckett. Già Don Chisciotte ci ha mostrato quanto stretto sia il rapporto tra astrazione e farsa. Ma Don Chisciotte aveva fatto astrazione solo dal modo di essere del mondo; non dal mondo in quanto tale. Dal punto di vista filosofico, dunque, la farsa di Beckett è "più radicale", egli non crea la situazione farsesca mettendo persone in un mondo o in una situazione non adatta a loro, con cui vengono in collisione, ma "ponendole" senza metterle in nessun posto. Con ciò diventano clown, perché la comicità dei clown consiste nel confondere per principio quello che è con quello che non è, nell'inciampare in scalini inesistenti oppure nel trattare gli scalini come se non esistessero. Ma, a differenza di questi clown (di cui fa parte anche Chaplin), che, per destare la continua ilarità, si danno da fare senza posa e si scontrano addirittura per principio con il mondo, gli eroi di Beckett sono clown pigri o paralizzati. Per loro non è questo o quell'oggetto che non esiste, ma il mondo nella sua totalità, pertanto non se ne occupano più. Così è già fissato il tipo dellefabulae personae, che egli sceglie come rappresentanti dell'umanità odierna; possono essere soltanto clochard, esseri estromessi dal disegno del mondo (cioè dallo schema della società borghese); creature che non hanno più nulla da fare, perché non hanno più nulla a che fare con il mondo. 2. Il motto: rimango, dunque aspetto qualche cosa Più nulla da fare. Da quando, più di vent'anni or sono, Doblin ha rappresentato in Biberkopf l'uomo condannato a non fare, e perciò avulso dal mondo, il "fare", a causa di sviluppi storici di vario genere, è diventato ancora più problematico di allora; non già perché sia aumentato il numero dei disoccupati, il che non è; ma perché milioni di persone che effettivamente fanno ancora qualche cosa, hanno la sensazione di "essere fatti fare": cioè lavorano senza proporsi da sé lo scopo del loro lavoro, o senza poterne nemmeno capire lo scopo; oppure lavorano avendo la consapevolezza di lavorare al proprio suicidio- insomma siamo condotti per mano a tal punto, che anche il fare è diventato una variante della passività e che persino dove richiede una fatica mortale, o è addirittura mortale, ha assunto laforma di un fare senza scopo o di un non fare. Nessuno potrà certo negare che Estragon e Wladimir, che non fanno assolutamente nulla, siano i rappresentanti di milioni di uomini attivi. Sono tanto rappresentativi, è vero, soltanto perché, nonostante la loro inattività e la mancanza di senso della loro esistenza, vogliono tuttavia "continuare", non si elevano quindi al rango di tragici candidati al suicidio. Sono altrettanto lontani dal pathos rumoroso dei "desperado" della letteratura del secolo decimonono, come dall'isterismo dei personaggi di Strindberg. Sono più veri: cioè così privi di pathos e di logica come lo sono appunto i comuni uomini di massa. Perché nemmeno questi la fanno finita, 68 pur vivendo nell'assurdo, e persino quelli tra loro che sono nichilisti vogliono continuare a vivere, per lo meno a '.'non non-vivere". Persino questa formula di volontà negativa è ancora troppo dottrinaria: giacché, in fin dei conti, gli Estragon e i Wladimir continuano a vivere perché vivono senza senso, ossia perché la decisione di non continuare a vivere, la libertà di farla finita, è ormai paralizzata dal1'abitudine al non fare o al non fare da sé. O, infine, senza alcun motivo speciale; continuano a vivere perché ormaici sono; e perché per vivere non occorre niente altro che esserci. Dunque la commedia di Beckett tratta di questo genere di "vita": dell'uomo che rimane perché ormai c·è. Ma ne tratta in un modo che diverge fondamentalmente da tutte le precedenti rappresentazioni letterarie della disperazione. Il motto che si sarebbe potuto mettere in bocca a tutte le figure di "desperado" (Faust compreso), sarebbe stato: "NorÌ abbiamo più nulla da aspettare, dunque noh restiamo". Estragon e Wladimir, invece, usano "forme di inversione" di questo tenore: "Restiamo" sembrano dire "dunque aspettiamo". E: "Aspettiamo, dunque abbiamo qualche cosa da aspettare". Questi motti sembrano più positivi di quelli dei loro antenati. Ma sembrano soltanto. Perché è escluso che i due aspettino qualche cosa di determinato.Tant'è vero che devono rammentarsi reciprocamente che aspettano e che cosa aspettano. Realmente, dunque, non aspettano proprio nulla. Ma considerato che continuano a esistere ogni giorno, riesce loro impossibile non concludere che aspettano; e considerato che "aspettano" ·ogni giorno, non possono fare ameno di concludere che aspettano qualche cosa. Così come di fronte a persone che vediamo stazionare a una fermata, di notte, sotto la pioggia, non possiamo fare a meno di . concludere che sono persone che aspettano e che ciò che aspettano non "si farà aspettare". Perciò non ha senso domandare chi o che cosa sia l'atteso Godot. Godot non è che il nome del fatto che l'esistenza che continua senza senso crede erroneamente di essere un'"aspettativa", un"'aspettativa di qualche cosa". La positività dei due personaggi è dunque il risultato di una doppia negazione: la incapacità di riconoscere l'insensatezza; non è qualche cosa di semplicemente positivo - e con ciò non facciamo che ripetere ciò che Beckett stesso ha detto del titolo della sua commedia: cioè che quel che gli importa non è Godot, ma esclusivamente l'"attendant". 3. Beckett non presenta uomini nichilisti ma l'incapacità degli uomini di essere nichilisti Commentatori francesi hanno usato l'espressione di Heidegger "essere gettato" per caratterizzare questa vita in cui si continua ad aspetta.re soltanto perché ormai si esiste. A torto. Perché, mentre Heidegger ammette con il suo termine la casualità della propria esistenza e lo dice chiaro e netto (per poi impadronirsi protervamente di questo "caso" per farne il proprio "progetto") i due eroi della commedia di Beckett non fanno né l'una né l'altra
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