pravvivenza artistica giocata su una comoda collocazione di rendita. In particolare chi ha seguito con assiduità i suoi concerti, ha potuto invece rendersi conto di come, senza "svolte" eclatanti, che non si producono del resto ad ogni pié sospinto, Davis abbia continuato incessantemente a rielaborare per linee interne la propria musica, e a presentarne sempre nuove sfaccettature. Lungi dal- !' adagiarsi nella replica e nella standardizzazione, dando prova piuttosto di una passione e un'integrità artistica non comurµ, da un'esibizione all'altra Davis ha sempre fornito rilettu!·e immancabilmente inedite anche dei brani a cui più si era affezionato, magari ripresi dal pop. che di stagione in stagione ha riproposto dal vivo centinaia di volte, come Time After Time. Human Nature, Perfect Way. Con la sua inimitabile vena ritmica, il suo superbo gusto coloristico, le sue inclinazioni melodiche, l'instancabile rivisitazione del materiale tematico. il l;>avisanni Ottanta è il Duke Ellington del1' era elettrica. · Nell'ultima fase della sua carriera Da vis ha occupato una posizione unica e purtroppo assolutamente insostituibile: si è mosso nello spazio di una musica popolare compiutamente contemporanea ma segnata da una fortissima soggettività individuale, espressione di una vicenda della musica neroamericana ormai al termine, e ha portato il jazz a divenire altro da sé, ma conservandone il pathos. E la tensione a superare una storia si· è presentata con le vesti di uno struggente vitalismo malinconico. Mentre regalava la magia della sua musica, con la sua implacabile sfida contro il passare degli anni, in concerto Miles offriva anche una rappresentazione capace di ·trasmettere un acutissimo senso della precarietà della vita. Nel volgere alla fine della sua carriera il proverbiale dandysmo di Davis non si riduce affatto al segno di un patetico rifiuto di accettare la realtà della vecchiaia, è invece la manifestazionè della volontà di guardarla in faccia, e di battersi fino in fondo, orgoglio~amente: è tutt'uno ·con la musica, parte dello stesso culto della bellezza e di quella elevata considerazione della propria dignità che trova nella sensibilità davisiana alla discriminazione nei confronti della sua razza una motivazione fondamentale. Così, nell'ultimo decennio e fino all'estate scorsa, le esibizioni di Davis sono state l' occasione, di cui approfittare ostinatamente, per essere testimoni diretti di un miracolo di longevità artistica e per ritrovare nel magnetismo, nello stile, nel temperamento e nell'esperienza di Miles, con tutte le sue debolezze francamente confessate, le doti di un credibile padre spirituale. Concerti da vivere come momenti non fungibili, seguiti ciascuno come se fosse stato l'ultimo: il saluto e l'abbandono del palco di Davis era molto di più della conclusione di un concerto. E mentre si temeva che il filo potesse spezzarsi da un momento all'altro, si poteva anche cominciare a credere che Miles sarebbe sempre tornato, perché aveva definitivamente , conquistato l'aura di quegli eroi frutto dell'immaginazione che non muoiono mai. 38 CONFRONTI Archeologiadello sradicamento. Icanti degli operai torinesi Peppo Delconte Certo che di sforzi ne sono stati fatti tanti per far app?rire la Torino a cavallo di Otto e Novecento, quella dei giorni in cui nasceva la metropoli industriale, una realtà diversa da quella che era. Non importa a che nomi si faceva riferimento: Gozzano, De Amicis, Don Bosco ... L'importante era nascondere quello che veramente era. Il volume edito dalla Ricordi/ Unicopli Canti degli operai torinesi, di Emilio Jona e Sergio Liberovici, con annessa cassetta delle registrazioni originarie di 19 testimoni ormai irraggiungibili, serve anche a fare una tardiva giustizia e far comprendere meglio la durissima realtà di quegli anni. Si tratta indubbiamente di uno sforzo di documentazione senza precedenti; una fatica ingrata e mai sufficientemente apprezzata, come è al solito quella di chi si sforza 11ell'eradell'usa e getta di conservare le prove, non solo di . esistenze sofferte, ma anche di sogni che non si sono realizzati e che pure appartengono alla storia dell'uomo (con la forza indispensabile dei sogni). Ma sarà opportuno oggigiorno, tenuto conto delle accelerazioni temporali a cui siamo sottoposti, precisare che stiamo affrontando un tema più di archeologia che di storia. Questa considerazione-non solo dettata dalla necessità di precisazioni linguistiche - non toglie nulla alla straordinaria qualità della ricerca compiuta e agli indiscussi meriti degli autori. Jona e Liberovici sono d'altronde due nomi che hanno da tempo valicato l'ambito ristretto degli specialisti di settore; almeno dal 1964, anno di pubblicazione per i tipi della Bompiani di Le canzoni della cattiva coscienza. Il volume, eia loro realizzato assieme a Fausto Amodei e Michele Straniero, resta tutt'oggi un'opera unica, sia per il contributo dato alla critica dell'industria della canzone, sia per l'influenza avuta in quei lontanissimi anni Sessanta. Allora infatti addetti ai lavori e semplici appassionati; apocalittici e integrati, tutti o quasi cercavano spunti per una proposta alternativa, un progetto di canzone veramente popolare che fosse ladiretta filiazione di questi autentici prodotti culturali della classe lavoratrice. Così tutti o quasi trovarono in quel coraggioso saggio a quattro mani gli spunti che cercavano: negli ambienti vicini agli autori nascevano i fermenti creativi di Cantacronache, inquelli della canzonetta commerciaÌe prendeva piede lo scandalo dei cantautori, i migliori dei quali avidamente studiavano!! discutevano quel libro, come un prezioso lavoro teorico degli abitanti di un' Altro Mondo. A una trentina d'anni di distanza i consuntivi non sono esaltanti. Da una parte, ci si chiede cosa resta di un progetto utopico di canzone moderna radicata nella tradizione popolare, progetto che aveva coinvolto gente come Italo Calvino, Franco Fortini, Giovanna Marini,Dario Fo, Fiorenzo Carpi e aveva prodotto spettacoli come Bella Ciao o Ci ragiono e canto. Dall'altra, lo sviluppo del cantautoratocome filiazione assai più indiretta del dibattito su Le canzoni della cattivà coscienza è stato certamente più fortunato: sia sul piano dei risultati commerciali sia su quello della comunicazione di massa attraverso prodotti spesso qualitativamente dignitosi. Ma non ha perduto la fondamentale a111biguità di un'attitudine creativa, che rimane in sostanza individualista e borghese, dunque in gran parte estranea a quelle radici popolari cui pretende di richiamarsi. · Ma torniamo ali' imponente raccolta di Jona e Liberovici, un grande affresco (o un dagherrotipo) della trasformazione che il canto popolare ha subito negli anni in cui il nostro Paese è passato da una struttura sociale prevalentemente contadina a una industriale. È innanzi tutto una ricerca che riguarda il musicologo come il letterato, il linguista, l'antropologo; ma può coinvolgere chiunque si fe1'rnia riflettere sulla trasformazione di allora e su quella attuale. Ciò che è accaduto negli anni a cavallo dei due secoli e -successivamente fino all'avvento del fascismo è .stato abbastanza chiarito sul piano sociologico: una comunità da villaggio agreste cede il passo a una comunità di nuova estrazione, la classe operaia, che ha nuove esigenze di comunicazione e.di organizzazione. Nasce in quei giorni quello che Ernesto de Martino ha chiamato il "folclore progressivo".
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