CONFRONTI che erano di chissà chi, servi vano forse a qualcuno, una volta, per camminare, e ora girano senza senso, in cerca di un corpo che possa di nuovo usarle. La critica militante si è fatta così gracile e piccola che rabbrividisce alla sola idea di prendere sul serio qualcuna delle grosse parole che continuano di tanto in tanto a circolare nei seminari e nei convegni universitari. Una volta si parlava tanto di teoria e struttura del romanzo, anche se nessuno voleva sentire parlare di romanzi veri e propri. Vortic,ose bufere teoriche si scatenavano in assenza di opere con cui confrontarsi. Teorie così belle e attraenti che sostituivano le opere letterarie, senza farne neppure sentire la mancanza. Ora, invece, tantissime opere medie e minime. Qualche anno fa, libri di poesia su libri di poesia, uno dopo l'altro, messi insieme alla meglio per dare l'impressione che la Poesia esisteva e che esistevano i Poeti: creatività intollerante di remore, fioritura di mille talenti, e tanto amore reciproco. Più recentemente, il Romanzo, il Romanziere Esordiente, là Riscoperta. Strana vitalità di un genere letterario dato per morto venti anni prima. Anche in questo caso, un fenomeno surreale: gambe e braccia che volano nel vuoto, forse appartengono a qualcuno, ma la figura intera non si vede. Qui un po' di attenzione al destino, all'evoluzione e alrinvoluzione dei generi letterari, forse sarebbe utile. Forse oggi scrivere poesia lirica e romanzi è come cornporre ecloghe pastorali e poemi in ottave nell'epoca di Defoe e Swift, o di Voltaire e Diderot. Non si può definire critico militante chi non si impegna a parlare regolarmente dei libri che escono. Ma il mio dubbio è questo: è possibile oggi fare critica militante recensendo, una settimana dopo l'altra, i romanzi e i libri di poesia che vengono pubblicati? Il solo fatto di leggerli tutti o quasi tutti non è una specie di aberrazione? Si diventa, si resta, critici militanti dopo aver fatto un lavoro simile per anni? Contro ogni evidenza di fatto o quantitativa, continuo a pensare che la critica militante sia almeno sul punto di sparire. O, se voglio essere più cauto, posso dire che si è così trasformata da sembrare ma non essere più quella cosa che i migliori critici del passato hanno praticato e fatto credere.Le cose cambiano, alcune attività che prima erano esercitate in una certa forma e avevano una particolare funzione, può succedere che cambino forma e non abbiano più quella funzione. Intorno a una così eminente banalità non dispero che possa stabilirsi un largo consenso. Per fare un piccolo passo avanti, provo a isolare tre punti sui quali riflettere e a proporre qualche esempio. 1. Il linguaggio della critica Che fosse considerata anzitutto "scienza" e "studio" o anzitutto "arte" e "stile", la critica letteraria è sempre stata una mescolanza di attitudini analitiche e di attitudini inventive. La critica non può confondersi con l'oggetto che studia e descrive - l'opera letteraria - e quindi deve tenerlo ad una certa distanza usando una terminologia propria, derivata dalla retorica o dalle più recenti teorie del testo, dalla filosofia della storia o dalle scienze umane. Ma non può neppure allontanarsi troppo dalle caratteristiche del suo oggetto - l'opera letteraria - come individualità e prodotto unico, dove anche uscire dagli schemi di una generale tassonomia, entrare nella particolarità, immergersi in quella forma, per mimarne in qualche caso i capricci strutturali. Fin qui, credo, tutti d'accordo. Si tratta di una polarità ben nota. L'accordo, però, è più facile in teoria che in pratica. La 28 polarità fra studio e stile, fra la mente che indaga e il linguaggio in cui l'indagine viene condotta ed espressa, può dare luogo alle soluzioni più diverse. Nella valutazione di ogni critico che 11/ggiamo abbiamo a che fare col risultato di questa mescolanza o contaminazione di conoscenza, immaginazione, rilievi testuali, ritratto dell'autore, ipotesi sulle fonti stilistiche e sul pubblico potenziale di un'opera. Ogni conoscenza e valutazione si serve di categorie teoriche, si serve di uno stile espositivo e argomentativo. E ogni conoscenza interpretativa richiede sempre un certo grado di immaginazione. Insomma un buon critico inventa anche gli autori di cui parla, ma non troppo, e non del tutto. Ricostruisce la struttura del!' opera, ma continua a farci vedere l'opera, e non solo la sua struttura scheletrica. Il linguaggio della critica subisce facilmente delle involuzioni sia quando il critico tende a inventare troppo i suoi autori che quando tende a presentarci delle ineccepibili radiografie invece che dei ritratti opinabili ma completi. Da questo punto di vista, quello che è avvenuto in Italia nel linguaggio della critica dall' inizio degli anni Sessanta, è curioso e significativo. Con il declino della precedente società letteraria, con l' irruzione delle scienze umane nello studio letterario, con io sviluppo delle comunicazioni di massa e dell'università, la critica letteraria cambiò stile. Progettò se stessa come linguaggio scièntifico che interrompe ogni rapporto di vicinanza e contaminazione con il linguaggio delle opere letterarie. In quegli anni, i primi anni Sessanta, fu soprattutto Franco Fortini con Verifica dei poteri (1965) a combattere sia l'oltranzismo di una critica "tutta politica" della letteratura, che si imponeva fra i neo-marxisti, sia lo· scientismo delle correnti strutturalistiche. Per Fortini, la critica letteraria non poteva che occupare una zona di mediazione ideologica, comunicativa, polemica, "dialettica" tra saperi scientifici e sapere comune, astrazione teorica ed esperienza, utopia e allegoria custodite nella forma letteraria e interpretazione politica del presente. Ma anche Giacomo Debenedetti, che pure pubblicò, nella collana delle "Silerchie" del Saggiatore, l'esemplare studio strutturalistico di D'Arco Silvio Avalle su "Gli orecchini" di Montale (1965), prendeva cautamente le distanze dai modelli di critica letteraria che si stavano imponendo fra gli studiosi più giovani. Una chiara avvisaglia delle sue perplessità in proposito si legge nella nota introduttiva, di qualche anno prima, (1961), aU' Ivan Turghenev di Edmund Wilson. Scrive Debenedetti: "Tra gli esibizionismi di chi volteggia sulle spalle degli autori e i tecnicismi di chi sperimenta di vari tipi 'scientifici' di sonde e di pinze, la critica rischia oggi di lasciare inoperosi gli alimenti dell'opera". E continua, parlando di Wilson ma anche indirettamente di se stesso: "più che affidarsi a un metodo, egli si affida a un modo di fare abbastanza costante, sebbene alieno dal!' erigersi a teorìa o sistema." (G. Debenedetti, Preludi. Le note editoriali alla "Biblioteca delle Silerchie" Theoria 1991, pp. 180-181). In realtà, per molti anni prevalse l'idea di un passaggio necessario dalla critica letteraria alla scienza della letteratura. Tutta la critica precedente veniva considerata imprecisa, soggettiva, non scientificamente fondata, o fondata prevalentemente sulle "impressioni" del critico: come se un qualsiasi lettore o critico potesse fare a meno delle sue impressioni e imboccare direttamente la porta del sapere certo. Tra la scienza marxista della letteratura e la scienza del testo non c'era piµ posto per la maggior parte dei "modi di fare" a cui variamente si erano prima attenuti anche i critici più grandi e geniali. Lukacs e Spitzer erano considerati dei dilettanti: non abbastanza scientificamente marxista il primo, non sufficientemente sistematico il secondo. Il linguaggio critico diventava una terminologia passepartout, genericamente classificatoria. E la
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