Linea d'ombra - anno IX - n. 65 - novembre 1991

STORIE/ MILIONIS verso di me un u_omoalto, ben piantato e infagottato, che zoppicava, e pensai che era un'occasione - ma prima che aprissi bocca, "Dollars? Dollars?" mi chiese, con voce roca, di basso. Voleva comprare dollari. Ero già stato messo al corrente di questo commercio dai tipi del pullman, e mi ero impuntato - non per altro, solo perché lo dicevano loro. "Ma piantala", gli risposi, in greco. "Ehi, sei un compatriota?" fece lui, e mi afferrò la mano. Si appoggiò al recinto vicino a me e ci mettemmo a parlare. Nel pomeriggio era piovuto un poco, e adesso era tutto una dolcezza, tutto dorato: il fiume che scorreva lento, i ponti sospesi, le grandi cupole, e dirimpetto la collina verde, col monumento sulla cima. "La collina della Libertà", mi disse il compatriota: "Ci sono morti trentamila Sovietici". Gli chiesi della sua invalidità. "Fronte albanese", disse. "Fronte albanese e Grammos". Era dei dintorni di Florina. Poi gli chiesi dei profughi, quanti vivono lì, cosa pensano di noi, laggiù. E d'improvviso cominciò a rodermi dentro una voglia sommessa, direi quasi una nostalgia, di andare a vederli a Tatabanya, come mi diceva, aMiskolc, nel villaggio Beloghiannis. Ci mettemmo d'accordo per il villaggio. Mi promise di mandarmi un taxi, il mattino dopo: rrii avrebbe fatto fare lui un prezzo conveniente. Così il mattino dopo, all'ora in cui il gruppo si radunava per prendere il pullman davanti all'albergo - il programma prevedeva il lago Balaton - arrivò anche il mio tassista, che mi cercava col mio nome scritto su un bigliettino. Naturalmente non dissi niente sulla mia destinazione - meglio stare attenti, pensai -, però mi toccò scusarmi che non andavo con loro: certo che ce la passiamo così bene, tutti insieme, coi nostri scherzi che ci vuoi fare, noi Greci, dovunque andiamo, ci portiamo dietro anche la Grecia ma purtroppo, mi capite, devo fare un check up - no, no, niente di grave, ma è un'occasione, per me, per vedere a che punto sono. Ed ecco che, a un tratto, volevano farlo anche lorç,,tutti insieme, ed era anche per loro un'occasione, venire con lo stesso taxi: avrei speso di meno anch'io. Misi la sicura dal di dentro e partimmo, mentre quelli ancora parlavano all'autista, dietro il finestrino chiuso. Dopo un'ora di strada - l'erba bagnata aveva un odore piacevole, un odore pungente che mi porto ancora dietro - arrivammo al villaggio con le case a un solo piano e i tetti ripidi , che i profughi avevano costruito trent'anni fa. Una volta in piazza scesi. Ementre il mio autista mi mostrava sull'orologio che dovevo ritrovarmi lì, nello stesso posto, entro un'ora, io mi misi a camminare da solo e mi fermai in mezzo alla piazza. Allora cominciarono a uscire dalle porte, tutt'intorno, certe figure silenziose, coi capelli grigi, le facce scavate, invecchiate. Non voglio parlare di cose per cui non ci sono parole, degli occhi pieni di sospetto e di panico. Dirò solo di quel cimitero, oltre il boschetto di acacie e cipressi. Sulle lapidi verticali di marmo le fotografie, vecchi con lunghi baffi, vecchie coi fazzoletti neri annodati sotto il mento: Dimitrios Raptis, Evanthia Rapti.Tutt'intorno, la pianuta sconfinata. Due profughi mi accompagnarono al caffè per un grappino, mentre per le strade i piccoli greci giocavano, chiacchierando in ungherese. Gli uomini lasciarono il tavli e le carte e si radunarono intorno al nostro tavolo. Solo un vecchio pelle e ossa, cadente, non mostrava l'intenzione di lasciare la sua seggiola davanti .alla finestra. Stava seduto lì, tutto il tempo, immobile, con le mani appoggiate su un bastone da contadino; e fissava lo sguardo lontano, verso il Danubio che non si vedeva - solo la pianura. Si 68 capiva che per lui era faticoso tener ferma la mandibola, perché ogni tanto si sforzava di chiuderla, poi l'asciugava con uno strofinaccio da cucina sporco, di quelli vecchi a quadrettini, che teneva posato sulle ginocchia. Domandai chi fosse. "Ah", mi fanno. "Parba-Mitsos, Dulias". Non credevo ai miei occhi. Mi avvicinai e gli misi una mano sulla spalla. "Come stai, zio?" gli chiesi. Scosse la testa, e riuscì a dire: "Non ti conosco". · Gli dissi il mio nome. "Sei diventato grande", disse: Dopo, per tutto il tempo che stemmo lì a bere la grappa, a me girava in testa la veranda di Dulias, il pianerottolo dove stavo seduto con lui, a guardare. E ricordo che, mentre stavo a guardare, ripensavo a quel che dicevano, che dietro a quella catena di monti c'era il mare, tutto azzurro - un cielo rovesciato, per darti un'idea. Mi sembrava che parlassero di mondi mo!to lontani, davvero dietro il sole, che a quell'ora tramontava e stava appoggiato sulla cima del monte. E Dulias, sdraiato lì sul suo divano, d'estate, mezzo appoggiato al cuscino, con la mano nell'altra palma, stava tutto il tempo anche lui a guardare. "Zio, perché il sole diventa rossù quando scende sul monte?" "Perché lì c'è l'Albania, dove ci sono i rossi". E aggiungeva: "Non come noi qui". Allora cercavo di farmi venire in mente certi compaesani, che erano venuti dal!' Albania ai vecchi tempi. · Trovavo che le loro facce avevano davvero qualcosa di rossiccio, però non che ci fosse una gran differenza. Che differenza, poi? Tutte le facce erano cotte dal sole e dalla fatica, come padelle. Lo dicevo a Dulias. "Lasciali perdere, quelli", mi diceva, "sono qui da tanti anni: si sono imbastarditi, sono diventati neri come noi". "E che bandiera ha l'Albania, zio?" "Eh, che bandiera vuoi che abbia? Rossa." "Ah, allora è per quello!" Per quello anch'io vedevo una gran bandiera rossa di seta, stesa da una parte ali' altra per tutto il cielo occidentale, e sopra ci aveva il sole, anche più rosso. Glielo dissi, e fu contento. "Solo, sai una cosa?" disse "Non dirlo agli altri: loro non capiscono mica". E dove avrei potuto dirlo, poi? Chi aveva voglia di guardare al sole e al cielo? Non era ancora passato un anno dalla ritirata dei Tedeschi, e tutti si davano da fare per rimettere su le loro case bruciate, per avere un tetto sopra la testa. Solo io e Dulias. La sua casa, all'estremità del paese com'era, era sfuggita all'incendio. "Nemmeno i Tedeschi si sono degnati", diceva lui. Prima della guerra lavorava come panificatore ad Atene ed era, si diceva, un sindacalista frà i primi, e che la polizia l'aveva schedato. Metaxàs l'aveva spedito al confino a Ikarìa, e lì si era istruito. Che aveva in paese una vecchia madre, così curva che il naso Lespazzava per terra. Ogni sabato, che veniva il postino, eccola al caffè, appoggiata a un legno contorto che le faceva da bastone. "Il mio Mitsos, caro mio, raddrizzerà i torti!" E i paesani la prendevano pesantemente in giro, dicendo che avrebbe raddrizzato anche la schiena della sua vecchia. Ma quando Dulias tornò al paese, come tanti altri ateniesi al tempo dell'Occupazione, trovò la casa vuota: non fece in tempo a rivederla. Questo dicevano, e che era un uomo misterioso. Quella veranda di'legno con la tettoia di coppi, per i compaesani era diventata una

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