Linea d'ombra - anno IX - n. 65 - novembre 1991

essere riuscito a entrare a far parte della corte o del salotto o del teatro dove si tiene la manifestazione: e quando gli si chiede di protestare, denunciare si è comunque di fronte all'esempio migliore e al momento più alto e positivo della partecipazione televisiva, perché, come si sa, ci sono anche le trasmissioni dove sfilano le famigliole che si amano o le coppie che si separano e che raccontano la loro vita privata, le vicende della loro vita sentimentale e sessuale, pur di "essere presenti" nello schermo televisivo.L'intervistato entra in uno stato d'animo da "sindrome di Stoccolma" che lo predispone quasi a recitare la propria parte, mentre il conduttore - che conosce bene questo - gioca a usare, a manipolare o a spiazzare, a seconda delle convenienze, questa specie di leggera finzione e di assoluta condiscendenza. Anche questi esempi, così lontani dalle trasmissioni di tipo giornalistico, servono comunque a illustrare quanto è mutata forse la condizione e la considerazione della dignità personale e della vita quotidiana della gente, ma anche quanto è aumentato il potere della televisione; tanto da cambiare completamente il senso del "dare la parola alla gente", mentre paradossalmente non s'è mai vista in tv una presenza così nutrita e frequente di gente comune. Quando il giornalismo televisivo si esprime nelle forme o con le formule di quei programmi-contenitori, dove c'è sempre il pubblico che fa la parte dell'assemblea (o dell'assemblea che fa la parte del pubblico), cambia anche il modo di risolvere gli altri problemi, etici o tecnici, già affrontati dalla recente tradizione del reportage documentario, sia cinematografico che televisivo. Per esempio il problema della faziosità, della ricerca di un modo di fare inchiesta giornalistica-teleVisiva "imparziale". A questo proposito, una delle soluzioni più frequenti e corrette adottate dal cinema documentario europeo - come quello di Jean Rouch, per fare un grande esempio -era la scelta di non nascondere l'autore dietro la telecamera ma di entrare senz'altro in campo, di dichiararsi presente con la propria parzialità, la propria storia, le proprie scelte. E però il presupposto di quel tipo di "parzialità" era quello di motivare e orientare la propria inchiesta a una effettiva conoscenza dell'altro: io voglio dichiarare chi sono, semplicemente perché questo rende più chiaro a te perché io ti faccio certe domande; ma io vengo da te per sapere, per conoscerti davvero. Almeno sul piano delle . intenzioni e del metodo, nel cinema documentario d'inchiesta, si decideva di partire con la assunzione e dichiarazione di "parzialità", e dunque si lasciava entrare in campo la propria soggettività di autore e di operatore, al fine di migliorare un risultato di conoscenza, di approfondimento, di scoperta della ·realtà indagata e delle sue contraddizioni. Di fatto invece in molti programmi televisivi attuali, prevale un'altra scelta, per cui il conduttore "imparziale", è al contrario lui al centro del campo, lui che controlla il gioco, che distribuisce minuti e apprezzamenti e sberleffi, e non tollera che gli si facciano domande né tantomeno accetta di essere giudicato dai "suoi" ospiti. E nella maggioranza dei casi, più che conoscere le realtà e le storie di vita narrate dagli "ospiti", gli interessa fare domande che dimostrino quanto è intelligente e umano lui. Ma anche i conduttori e gli intervistatori più seri, che si propongono davvero di trasformare una storia reale in un evento significativo per milioni di spettatori, quasi sempre sottovalutano il fatto che, per la persona intervistata, qualunque sia la motivazione e l'argomento della sua testimonianza, è la televisione l'evento principale. Di qui l'inconscia voglia di uscirne bene, di costruire un'immagine di sé che risulti gradevole anche se poco reale (vedi soprattutto i personaggi famosi, i divi IL CONTESTO o i politici), oppure di raccontare una storia di vita che strappi lacrime e applausi. E nessun intervistatore o conduttore può allora dire che sta registrando una realtà o raccontando una storia "in diretta": sta piuttosto costruendo un evento in cui inserisce personaggi ospiti al posto di testimoni. Il vero problema a questo punto è non fingere che non si tratti di un "evento televisivo", e invece riconoscerlo e porsi il problema di come evitare che prevalga sull'evento reale da narrare, o almeno come svelarlo. Lo si può infatti certamente usare per riflettere sull'argomento o sulla realtà che si vuole indagare, a patto di comprendere nella riflessione la trasmissione stessa, la televisione stessa, e i suoi rapporti e le sue responsabilità con la realtà oggetto della trasmissione. Questo è, a mio parere, il problema di quelle trasmissioni che si pongono così esplicitamente come_"eventi",da diventare in se stesse fenomeni più vistosi e argomenti più discussi dell'inchiesta e del dibattito che hanno provocato e contenuto. Anche a prescindere dalle proteste e dalle minacce dei dirigenti Rai e della Dc, non si può dire che la puntata di "Samarcanda" e del "Maurizio Costanzo Shòw" sulla mafia non abbia fatto più clamore come costruzione di un evento televisivo, di quanto abbia approfondito la conoscenza della realtà siciliana o i temi della mafia e della criminalità organizzata. È questo un esito che si vuole valutare, probabilmente, come un puro e ineliminabile dato di fatto, ma così non è. Per esempio, il giornalismo documentario americano spesso sceglie di intervenire all'interno di un reale e spettacolare avvenimento, il cui peso specifico resta superiore e determinante rispetto al lavoro di inchiesta e documentazione televisiva o cinematografica: il criterio è poi lo stesso che guida i servizi giornalistici ordinari, anche quando ci si propone di arrivare alle dimensioni e all'autonomia di un vero e proprio documentario d'inchiesta. Così, per fare esempi famosi, i documentari sulle elezioni primarie di Kennedy, oppure il film di Leacock sulle ultime giornate di un condannato a morte. Non sono casi in cui, come si vede, si sospende o si supera la discutibilità morale, ma certamente si evita che l'intervento televisivo assuma la preponderanza di un evento più eclatante della realtà che si vuole rappresentare; lapreoccupazione di questo cinema documentario era quella di filmare i personaggi in situazioni dove l'evento reale era talmente importante che non potessero o volessero costruirsi un'immagine finta davanti alla macchina da presa. Un'altra possibilità, per almeno ridurre l'effetto televisione sulla testimonianza, è quella di raccoglierla non in uno Studioma nel suo mondo reale. · Le cose, nei talk-show, vanno proprio nel senso opposto, e in fondo obbediscono a un modo di fare televisione che finge di aver superato parecchie ansie e problemi che sono legati ali' uso tecnico e culturale del mezzo, prima ancora di essere questioni politiche e morali legate al suo potere o al rapporto con il potere. Spesso, sovrapporre le preoccupazioni "della politica", sulla completezza o sull'imparzialità di una trasmissione, significa dimenticare le proprie preoccupazioni professionali e culturali, magari anche il fine naturale di un'inchiesta giornalistica che resta quello di scoprire e raccontare la realtà. Un risultato che, per fortuna, capita comunque spesso, malgrado le tecniche e i metodi impiegati. Quello che per esempio mi ha colpito di più, nellafamosa trasmissione di "Samarcanda", è appunto ilmomento in cui è scattato, dentro l'evento vuoto televisivo, l'evento particolare e reale: l'esibizione davvero "scoperta" di un onorevole siciliano, di un personaggio talmente preoccupato e· coinvolto nella discussione, talmente colpito nei suoi interessi, nelle sue opinioni, da interrompere e spiazzare - agli occhi 11

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